Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 35
Dal 06/05/2024
al 13/05/2024


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"La crisi del teatro". Riprendere le fila del discorso  
"Les machinations les plus saugrenues et les plus coupables" #1 – Armunia sempre più a rischio.      
di Gian Maria Tosatti      

La crisi del teatro è argomento all’ordine del giorno da un secolo a questa parte in ogni conversazione culturale. La crisi del teatro è un argomento che ci ha quasi stancato, come tutti i problemi che si protraggono per anni.

Ma talvolta fatti di attualità ci portano a domandarci ancora una volta cosa si intenda esattamente per “crisi del teatro”, o meglio a riprendere in mano le fila di un discorso che avevamo escluso per noia dal nostro campo uditivo.

E ci si rende conto che “La crisi del teatro” è in realtà una doppia crisi, una crisi double-face. Perché dall’inizio del Novecento ad oggi abbiamo conosciuto un teatro in crisi per essersi posto domande fondamentali sul proprio ruolo e sul proprio senso e un teatro entrato in crisi perché superato, come forma di intrattenimento, da mezzi di comunicazione più moderni ed efficienti come il cinema e la televisione. (Corollario: sia detto una volta per tutte come non sia vero che a parità di ambizioni la presenza dell’uomo sulla scena sia vincente…)

Il teatro che risponde al secondo caso, cioè quello che la maggior parte degli spettatori riconosce come “il teatro da abbonamento” e che spadroneggia nei nostri Teatri Stabili, è destinato ad una crisi irreversibile ed è prevedibile, come quasi auspicabile, che in capo a vent’anni sarà defunto.

La crisi dell’altro teatro è invece di tutt’altro genere. E’ una crisi che ha attraversato un secolo cercando di un capire l’originaria potenza di un evento artistico immediatamente deperibile, in cui, dentro una stessa stanza, due gruppi di uomini si riuniscono in assemblea.

I provocatori di questa crisi, noti alla Storia come Riformatori (Stanislavskj, Mejerchol’d, Brecht, Artaud, Vachtangov, Appia, Grotowski, Barba, Carmelo Bene ecc.) hanno cercato, negli anni, come risposta alla crisi, di scoprire teatri. Non costruendo edifici, ma inventando luoghi in cui il “modo” di fare e di presentare teatro, non fosse frutto di una consuetudine, ma di una reale necessità di conoscenza.

Ma oggi qual è lo stato di questa prolifica crisi in Italia?

Al presente in Italia esistono teatri (e sono la maggior parte) il cui ordine e la cui attività artistica rispondono a criteri di vent’anni prima, o anche trenta o anche quaranta. Nella mente del pubblico ciò è “corretto”, perché da che siamo nati è così che abbiamo conosciuto il teatro. Tuttavia manca in questo ragionamento l’aspetto dell’evoluzione, che in una istituzione culturale corrisponde alla responsabilità di trovarsi sempre un passo (o anche due) davanti al pubblico, per stimolarlo ad approfondire linguaggi nuovi, che hanno a che fare con una società che attorno a noi evolve rapidamente.

Se cultura è evoluzione della cultura, allora va da sé che un teatro fermo sui canoni di vent’anni prima è un luogo in cui non si fa cultura.

In Italia nel secondo Novecento questo problema è stato fortemente sentito dagli artisti e anche dagli spettatori (quando in tempi più felici alla televisione esistevano ancora trasmissioni culturali –vere- e sui giornali si poteva parlar d’altro che di televisione e rockstar). Ciò condusse ad una mobilitazione che partorì la grande stagione degli anni ’70, destinata poi, come tutte le rivoluzioni di quegli anni, a normalizzarsi. I teatri nati allora come “centi per l’innovazione” divennero dopo qualche anno e sono oggi Teatri Stabili di Serie B, in tutto e per tutto uguali nella gestione a quelli di Serie A, se non per il minore budget. I giovani riformatori di questa stagione (che portò l’Italia sotto i riflettori dell’Europa) hanno scambiato i propri “camici” di ricercatori con un doppiopetto da burocrati e i direttori artistici (che sono i “registi” di un’istituzione culturale).

Una situazione piuttosto sconsolante, che ha visto tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000 il suo picco di oscurità (in primo luogo perché gli stessi artisti iniziarono a credere che i propri lavori fossero davvero prodotti di consumo culturale), fino alle prime avvisaglie di una inversione di tendenza in questi ultimissimi mesi.

Responsabili di tale risveglio positivo, attorno al quale è concentrata grande attenzione, sono quelle poche, pochissime strutture che in tutti questi anni non si sono sedute sulle proprie piccole conquiste, sui loro finanziamenti, ma hanno continuato a svolgere un costante lavoro di innovazione, rinnovando il sangue del teatro italiano. Esattamente come i cuore riceve sangue "sporco" dalle vene e pompa sangue pulite nelle arterie dell’organismo.

Armunia, istituzione diretta da Massimo Paganelli e residente al Castello Pasquini di Castiglioncello è stata innegabilmente una di queste. Negli oltre dieci anni di attività da Armunia è uscito il “sangue pulito” che ha dato ossigeno al sistema. Vi hanno trovato attenzione gli artisti che oggi in Italia costituiscono il tessuto di valore della nuova scena e che è quasi superfluo citare (da Sandro Lombardi e Federico Tiezzi a Leonardo Capuano e Renata Palminiello).

Il merito di questa struttura è stato principalmente quello di mantenere vivo un interesse verso la specificità e l’unicità dei processi produttivi di artisti di grande livello, come di compagnie esordienti, non prescindendo dal principio che per ogni processo di lavoro è necessario pensare un adeguato processo produttivo. Questo ha portato negli anni ad una concentrazione attorno ad Armunia di un grande numero di giovanissime compagnie del territorio e della toscana in genere, cui il sostegno di Armunia ha permesso di proseguire e sviluppare i propri percorsi di ricerca poetica fino ad approdare sulle principali ribalte italiane. Ma specialmente negli ultimi anni Armunia ha allargato il suo bacino a tutto il territorio nazionale entrando attivamente nella produzione di un numero impressionante di giovani realtà che quest’estate hanno invaso letteralmente i festival e che in inverno si preparano ad attraversare le stagioni dei teatri.

Un merito che, come osservatori abbiamo documentato attentamente in questi anni e che è oggi messo in discussione dai continui attacchi politici dei comuni associati (Armunia è nata da un’associazione di comuni per la gestione dello spettacolo nel proprio territorio) e, quanto è più grave, da una più che miope stampa locale.

Così, se è vero che “nessuno è profeta in patria” è anche vero che non si può tollerare l’idea che l’ombelico del teatro contemporaneo in Italia sia continuamente bersagliato da attacchi insensati (e poco informati), invece che sostenuto per i meriti evidenti di un impegno costante verso le necessità primarie dell’arte: autonomia e dialogo. Questa settimana inizieranno incontri fra i sindaci per discutere in che modo Armunia “debba” essere cambiata, smembrata, ridimensionata.

Una prospettiva che preoccupa un po’ tutti gli osservatori e gli artisti che quotidianamente si misurano con i problemi culturali di questo Paese. In questo quadro, chi scrive, sente la necessità di lanciare un appello alla cautela e all’attenzione, verso gli amministratori e i sindaci. Chi scrive invita gli amministratori e i responsabili dei comuni (e non secondariamente anche la stampa locale) a trattare il problema Armunia, come una questione di carattere culturale ed artistico, dunque con la massima attenzione, e non come una disputa politica in cui si può intervenire senza riguardi.

Molti sono gli osservatori teatrali, critici, artisti ed operatori in grado di rilevare l’importanza del progetto culturale espresso (e dichiarato) da Armunia in questi anni e in particolar modo oggi. A questi speriamo che gli amministratori vogliano rivolgersi per valutare il da farsi. Se non sia il caso di sostenere tale ricchezza del territorio, invece che criticarla alla cieca.

Ma se i sindaci non volessero scomodarsi direttamente potranno chiedere alla nostra rivista di aprire un forum sull’argomento in cui pubblicare analisi e testimonianze in merito all’attività di Armunia da parte di tutti coloro che al Castello Pasquini ci sono passati e si sono fermati (a differenza di quelli che oggi alzano la voce e le polemiche).
Se gli amministratori sapranno leggere allora sapranno anche valutare la questione nella maniera più adeguata…

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -