Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


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Materiali per un Teatro futuro: #8    
Sottotitolo: Maestri di teatro #2: Ricreazione!      
Una conversazione con Marco Martinelli*
di Gian Maria Martinetti
     

Come è nato il progetto dei laboratori nelle scuole superiori?
Inizialmente sono state alcune scuole che si sono rivolte a voi chiedendovi di tenere laboratori teatrali o siete stati voi a proporvi nelle scuole?
Nel '92, se ben ricordo, Gabriella Figini, una professoressa dell'ITIS, venne a cercarci per un laboratorio teatrale con gli studenti. L'idea ci piacque, avevamo appena messo piede al Teatro Rasi, accettammo. Venuti a sapere della cosa, i licei (classico e scientifico) si accodarono. E poi, anno dopo anno, vedendo i risultati, tutte o quasi le altre scuole della città ci chiesero i laboratori, arrivando a una decina di istituti coinvolti, 3-400 ragazzi ogni stagione. La non-scuola è cresciuta così, per contagio.

Perché avete scelto proprio i ragazzi delle scuole come destinatari di questo progetto e non avete preferito invece tenere laboratori al di fuori dell'istituzione scolastica, ma sempre diretti ad adolescenti?
Ma li tenevamo anche fuori! Sempre nel '92, parallelamente all'inizio della non-scuola, in quello che era il primo anno dell'esperienza Albe-Ravenna Teatro, ci inventammo anche la Lode del lunedì, un laboratorio aperto a tutta la città, e anche oltre. Pensa che nei primi anni della Lode tra i partecipanti vi erano quelli che sarebbero diventati gli esponenti di punta del "nuovo teatro" italiano, almeno da queste parti: Motus, Clandestino, Fanny e Alexander, Masque. La Lode, proiettata all'esterno, bilanciava i laboratori "chiusi" nelle scuole.

Poi però il fatto di lavorare nelle scuole è diventata una scelta. Che differenza ci sarebbe se i laboratori fossero aperti a chiunque e non legati alla scuola?
Perché la scuola? Allora, perché gli adolescenti? Perché non i bambini? Ma perché quella dai 14 ai 18 è un'età turbolenta, instabile, carica di paure e di promesse, è l'età del confine: non possiedi più l'oro dell'infanzia, non sei ancora ingessato come un adulto. Gli adolescenti sono sbilenchi, s-graziati, non sanno cosa potranno diventare e nello stesso tempo dentro di sé nascondono mille personaggi possibili: santi, assassini, drogati e persi, artisti, politici, impiegati. Sono tutto e niente, sono naturalmente attori.

Per quanto riguarda le guide nel corso degli anni sono state fatte scelte diverse: inizialmente eravate tu e Lupinelli, poi man mano che la non-scuola è cresciuta sono state chiamate anche persone esterne alle Albe, come Eugenio Sideri, Pietro Babina, Marco Cavalcali, Menna Price, Claudia Pupillo, Gianni Plazzi etc., e negli ultimi anni alcune guide sono proprio ragazzi cresciuti nei laboratori non-scuola.
La storia della non-scuola fino ad oggi, questi dieci anni, la possiamo dividere in tre periodi. All'inizio siamo solo io e Maurizio Lupinelli, una bicicletta in due, che giorno dopo giorno ci spostiamo da un Brecht allo Scientifico a un Campanile per l'ITIS, e sorpresi scopriamo la carica anarchica, l'energia smisurata di questi che balbettano in classe e sul palco diventano leoni. Noi stessi non eravamo consapevoli di quel che facevamo, lo facevamo e basta, seguivamo un'onda di vita a cui tentavamo di dare forma scenica. Ma poi, nel giro di un paio d'anni, le scuole crescono di numero, io e Maurizio non bastiamo più, allora chiediamo ad amici, giovani attori e registi, di lavorare con noi: è la fase di ampliamento, è la fase in cui la squadra delle guide si allarga fino a una decina di persone, è una fase di crescita necessaria ma è anche la fase in cui lo "spirito della bicicletta", per dirla con Maurizio, va un po' a farsi friggere, perché? Perché, anche con le migliori intenzioni, le guide talvolta si pongono come "registi", i laboratori rischiano di diventare "esercizi di stile". Allora ci rendiamo conto che occorre mettere dei paletti, "fissarlo", questo "spirito della bicicletta", non tanto con un regolamento o un prontuario, ma con un testo di princìpi e visioni: nasce il Noboalfabeto, scritto da me e da Ermanna, Ermanna che ha guidato un unico laboratorio, nel '93, ma il cui sguardo sulla non-scuola è sempre stato prezioso. Nel frattempo emerge una generazione di ragazzi che, come te, ha cominciato nella non-scuola a quattordici anni, e ora si ritrova più che ventenne, chi studente universitario affamato di teatro, chi "palotino" in alcuni spettacoli delle Albe, si ritrova in condizione di fare la guida, in grado di comprendere lo spirito della non-scuola da dentro, capace di specchiarsi nell'adolescente timido o arrogante che gli si para davanti. A guidare oggi sono coloro che sono stati guidati, ed è forse il punto d'arrivo ideale di questi dieci anni.

Perché la scelta di creare un gruppo di guide cresciute (pur con percorsi diversi) vicino alle Albe?
Vicine alla non-scuola, vorrai dire...

Ma le Albe non sono anche la non-scuola?
Sì... in un certo senso sì. La non-scuola nasce dalle Albe e vive in stretta simbiosi con la poetica delle Albe e col modo Albe di sudare, di vivere la scena, quel pezzetto di legno sotto i piedi. Le guide sono dentro a quella "cattedrale" che è l'esperienza Albe-Ravenna Teatro, e per cattedrale non intendo un monumento o un'istituzione, intendo un cantiere a cielo aperto, intendo la cattedrale medievale-cubista disegnata da Feininger per il manifesto del primo Bauhaus, intendo quel clima di sperimentazione e di libertà creativa, quell'incontro di generazioni e di saperi.

Chi può essere guida?
Chiunque abbia in sé lo "spirito della bicicletta". Non ci sono patentini, né esami. Tocca a me e a Maurizio decidere.

Come si articola il tuo modo di lavorare nei laboratori? Quali sono, a grandi linee, le tappe del lavoro da quando incontri i ragazzi il primo giorno alla messa in scena dello spettacolo? Partiamo dalla scelta dei testi.
Ogni guida fa la sua scelta. Non è tanto importante il testo di partenza, quanto la capacità di farlo vivere in relazione ai ragazzi. Di creare cortocircuito.

Vanno bene, quindi, anche testi contemporanei, attuali?
Anche un testo scritto dai ragazzi, perché no? In genere però (non sempre, attenzione, ma spesso), i testi antichi, quelli della grande tradizione teatrale, dai greci fino a Shakespeare, ma anche fino a un certo Ottocento, sì, se vuoi anche fino a un certo Brecht, sono delle solide architetture dentro le quali puoi aggirarti, vagabondare, rovistare, succhiare tutto il sangue che c'è, rivomitarlo fuori, spaccarle, quelle architetture, tanto non si spaccheranno mai, saranno sempre lì, integre, felici ogni volta di prendere nuove martellate. I testi contemporanei, in genere, non hanno questo respiro grande, sono monadi monologanti, e certo, è quella la loro funzione, il loro bello! Ci raccontano l'epoca frantumata in cui viviamo, ma appunto, che gusto c'è a frantumarli? Cosa c'è da frantumare?

Non ho capito: vuoi dire che un testo contemporaneo non può essere "messo in vita" come un testo della tradizione?
Ma certo che si può... però è più... strano... bisogna trovare altre vie. Il punto da cui partire è che tu devi avere verso il novecento la stessa libertà che hai verso Aristofane. Perché ci viene più semplice "riscrivere" Aristofane o Molière che non Beckett o Thomas Bernhard? Detto in maniera schematica, gli antichi ti mettono tanta carne al fuoco, ci puoi sguazzare, prendere tagliare riscrivere, hanno un respiro corale, i contemporanei sono dei lirici, ti parlano dell'io separato, realizzano partiture stitiche, di uno stitico sublime, certo, ma sempre stitico è, sui primi devi lavorare per sottrazione, con i secondi ti tocca di accumulare se vuoi renderli utili per "servire" una ventina di adolescenti. Paradossalmente, parlando di non-scuola, gli antichi ci sono più vicini! Sia con gli antichi che con i contemporanei vale comunque il principio della riscrittura: senza riscrittura non c'è non-scuola, e sto parlando della riscrittura attraverso l'improvvisazione, momenti in cui, a prescindere dal testo, oppure prendendo il testo solo come miccia per fare esplodere l'immaginario, i ragazzi portino sulla scena il loro mondo, Castiglione di Ravenna o quartiere Anic, film, canzoni, oscenità, tenerezze, deliri.

Tornando alle varie fasi di lavoro, dopo aver scelto il testo, si arriva a scuola. Cosa succede durante i primi incontri?
Si introduce il testo ai ragazzi, che viene letto tutto o in parte. I primi incontri sono fondamentali: per i ragazzi che cominciano a capire cosa sta succedendo, per le guide che si trovano davanti le persone che dovranno "servire". Siamo degli strani servitori: li dobbiamo punzecchiare i nostri "sovrani", farli scoppiare, aprir loro la pancia e il cuore, mostrargli che possono tutto, o quasi, se prendono seriamente le regole del "gioco". I primi incontri servono a registrare le voci, a studiare i corpi e le loro attitudini. Io provo a sfruttare quelle iniziali otto-dieci ore di laboratorio per catturare il più possibile, perché a partire da quel che vedo e ascolto andrò poi a ripensare la struttura del testo, a modificare se necessario i primi propositi di regia: è la "materia" che mi trovo per le mani a ispirarmi, è lei che mi suggerisce la strada. Devi essere una spugna, sempre, disponibile a cambiare tutto quello che avevi pensato prima a tavolino.

E a questo punto dai le parti.
Eh sì, le parti, un momento elettrizzante...

E da qui si comincia a costruire, a trasformare il testo in carne scenica.
Vale qui lo stesso modo di lavorare che ho nelle Albe, un percorso di va e vieni tra il lavoro a tavolino sul testo e quello che avviene in scena, col massimo di apertura a tutti i terremoti possibili, con un'attenzione ossessiva, "vampiresca", a tutto quello che i ragazzi combinano, anche fuori dalla scena: se nei dieci minuti di pausa Ito ti passa nel corridoio sdraiato sullo skateboard, tu lo devi vedere, perché quello che ti sta offrendo, inconsapevolmente, è una possibilità per lo spettacolo.

Si può quindi dire che l'elaborazione e la costruzione...
Procedono di pari passo.

E' come se... non fossero la stessa cosa, ma quasi.
Per le Albe ho sempre utilizzato la metafora dell'alchimia: la pagina è il metallo, la scena è l'oro. Gli alchimisti trasmutavano il metallo in oro. Perché si trasformi in oro, la pagina di carta deve farsi carne, azione, riflettore. Modificare il proprio stato.

Si può dire che attraverso questo modo di lavorare, in cui elaborazione e costruzione vanno di pari passo, i ragazzi alla fine hanno una forte percezione di quella che può essere la creazione di uno spettacolo?
Ne sono protagonisti. Nel senso opposto a tutti i Saranno famosi in circolazione. Qui i ragazzi non saranno famosi, ma sono, nel breve segmento di tempo della non-scuola, coautori assieme alle guide, protagonisti di un percorso, creatori. Be', non è poco.

Quando incontri i ragazzi il primo giorno, tu per prima cosa non leggi il testo, ma fai loro un discorso su Dioniso, su quello che era il teatro ad Atene. Ricordo che quel discorso mi colpì molto fin dalla prima volta che, adolescente al suo primo laboratorio, lo ascoltai, facendomi entrare immediatamente nello spirito del lavoro. Anche quest'anno il laboratorio sulla Pace, cui ho partecipato come guida, è iniziato con lo stesso discorso, e non credo solo perché dovevamo lavorare su Aristofane. Perché scegli questa chiacchierata per cominciare? Cosa del teatro di Atene vuoi che i ragazzi colgano per ricrearlo poi nei laboratori a scuola?
Ah sì? Davvero faccio così? Certo... prima o poi il discorso su Dioniso lo faccio. Parlo di Dioniso ai ragazzi delle scuole, così come parlo di Dioniso agli universitari o ai giornalisti. Ai politici. Dioniso è il principio invisibile del mio modo di vivere il teatro, cade giù giù da un'Atene sognata e per me reale, arrivando a impiantarsi nel nostro tempo, nella mia vita. Non posso farne a meno. Ma in realtà l'importante non sono le mie parolette su Dioniso, importante è che i ragazzi avvertano, nell'esperienza insieme, un tocco di dionisiaco.

Il termine non-scuola inventato da Cristina Ventrucci racchiude in sé molti elementi della poetica di questo progetto: il fatto che non si vogliono formare attori, che non si vogliono insegnare tecniche ("non esiste la Tecnica in assoluto, ma solo modi diversi di servire le visioni" recita il Noboalfabeto), che gli spettacoli non devono essere esercizi di stile dei registi-guide, che non ci sono padri, non ci sono maestri. Questo termine potrebbe però anche dare adito a fraintendimenti del tipo: se non si insegna niente e i ragazzi non imparano niente, perché allora frequentare un laboratorio non-scuola?
Perché imparano tanto! Giocando! A noi non interessa formare degli "attorini" che sappiano "reciticchiare" (orrore!). A noi interessa far sperimentare, a tanti ragazzi, l'ebbrezza di un gioco più divertente di un videogame, fargli balenare, come un lampo, la possibilità di un viaggio psichico, di una profondità dell'anima, far loro sentire la bellezza dell'essere gruppo, squadra che gioca unita la sua partita, "sentimenti" questi che nei laboratori possono darsi solo come incipit, l'inizio di un percorso possibile. Se un ragazzo vuole, troverà i modi per dargli corpo in futuro, dentro o fuori la scena. E non è imparare, questo?

Cosa cambia e cosa invece mantieni nel tuo modo di lavorare con i ragazzi nella non-scuola e negli spettacoli delle Albe?
Lo spirito non cambia, cambiano il peso e il tempo. Quando faccio un lavoro come Albe è un lavoro che mi fa morire, è un cammino che si patisce in ginocchio, invece i laboratori della non-scuola li gioco all'insegna della leggerezza, è come giocare una partita nel campetto sotto casa: ci si diverte e si comprendono tante cose, te le insegnano il sudore, il sole, l'erba del prato, i sorrisi o lo smarrimento dei compagni.

Nella non-scuola non si va in profondità nel testo per scelta o per mancanza di tempo?
E' un saltellante gioco di superficie la non-scuola, una superficie che evoca la profondità. Perché la gente resta colpita quando vede uno spettacolo della non-scuola? Da che cosa? Se quattro ragazzini di 15 anni vestiti da tennis tu li metti a giocare con le parole degli innamorati di Shakepeare, e fai in modo che intreccino a quella retorica cinquecentesca le "loro" parole d'amore, e poi trovi la maniera di cucire insieme il tutto, alla fine questo "pasticcio" ti parla. Chi viene a vedere la non-scuola non chiede un'interpretazione profonda del testo shakespeariano, non esige di assistere a magistrali prove d'attore: vuole solo un briciolo di verità. E la verità si sprigiona dal cortocircuito tra l'altezza della Tradizione e la vita quotidiana, tenera e feroce, di quei corpi sgrammaticati, di quell'italiano balbuziente, sporcato dalla cadenza dialettale. Così quei ragazzi finiscono per fare luce, perché vengono messi in condizione, divorando Shakespeare, di fare luce. Altre esperienze di pedagogia teatrale invece sovrappongono il testo antico sui corpi, in modo che quella luce venga cancellata. Perché cancellare quei corpi, mi chiedo, quelle virtù non addomesticate?

Legate all'età quindi?
Un bambino, mettilo in scena, non fargli fare nulla: lo guardi e basta, lui di te non si cura, è già teatro, è Dioniso sulla pantera. Oppure, ci hai fatto caso? Prendi un vecchio, mettilo sul palco, non fargli fare nulla, quel suo spegnersi là sopra è già teatro, quella sua luce di creatura prossima al mistero lo avvicina a Dioniso morente. Lo puoi ritrovare nella vecchiaia, il dio, ma dai 20, diciamo, ai 70, Dioniso sembra non esserci più. E invece non è vero, c'è, ma si nasconde là, nel fondo. Per tirarlo fuori ti è necessaria arte, la "techne" dei greci: "oi Dionisou technitai", i tecnici di Dioniso, così venivano chiamati gli attori in Atene. E' un cammino che si fa in ginocchio. Ad Atene, prima delle gare tragiche e comiche, prima dei grandi autori e dei grandi attori, le 10 tribù in cui era divisa la città davano alla festa un coro di 100 ragazzi ciascuna, erano 1000 ragazzi che cantavano a Dioniso: era la non-scuola.

E si partiva dal coro.
E si partiva dal coro, altra "techne" fondamentale della non-scuola. La città, prima di assistere a quello che Aristofane e i suoi attori avevano strologato di così interessante, importante o banale, si specchiava in quelle1000 facce adolescenti, che cantavano il dio. Mi raccomando sempre con le guide, gli spettacoli devono avere un fondo corale robusto, devono porsi come manifestazione di un provvisorio "essere tribù".

Quali sono secondo te le caratteristiche dei laboratori non-scuola che li distinguono da altri laboratori in ambito scolastico con gli adolescenti e ne fanno un'esperienza importante nel panorama teatrale italiano e per i ragazzi che vi partecipano?
Per quello che ne so, non è semplice essere "vampiri" e "servitori". Se ti poni nei confronti dei ragazzi come un "bravo assistente sociale", come un "onesto operatore culturale", quelli fiutano subito la fregatura. E giustamente. Devi essere qualcuno che ha in sé un rametto di follia, come diceva Aristotele dell'artista. Non te lo puoi inventare il rametto, devi avercelo davvero! Se il ragazzo lo percepisce, se ti sente come uno "straniero" che entra nella scuola ma non si identifica con la scuola perché il suo è un sapere "altro", be', quello è l'inizio, da lì può nascere qualcosa di buono.

Se il teatro entrasse dentro la scuola come insegnamento, intendo non teorico, ma pratico?
Non mi convince. E' un rischio. Che si cerchino mille altri modi per mettere in relazione tra loro scuola e teatro, ma non questo. Ci hanno fatto odiare Manzoni, Leopardi, Dante, mentre la non-scuola riesce a far amare Aristofane, Goldoni e Shakespeare. Se il teatro diventa "materia scolastica" è già morto. Il teatro è lo straniero, che resti estraneo!

Qual è la tradizione teatrale a cui fate riferimento come Albe e quindi anche come non-scuola? Qual è il vostro retroterra, quali sono le basi, i maestri?
Siamo autodidatti. Il nostro primo maestro è stato il lavorare insieme. Il lavoro e gli errori ci hanno insegnato man mano come pensare teatro. Altro maestro, la Tradizione. Non solo i testi di Shakespeare o di Aristofane, ma il sognare quelle epoche vive, immaginarseli, quei morti, da vivi, mentre recitavano davanti ai vivi. Erano vivi e polemici, erano indisponenti! Sognare l'Atene del V secolo o la Londra di Shakespeare o certi momenti della Commedia dell'Arte ci ha fatto pensare a Ravenna in maniera utopica, impossibile: può Ravenna, in un'epoca ombelicale e stitica come quella in cui viviamo, trasformarsi in una piccola Atene? E poi ci sono i tanti artisti e maestri che abbiamo attraversato, i più disparati, da Totò ad Alfred Jarry, da Giordano Bruno a Pasolini ai Fratelli Marx, da Carmelo Bene a Grotowski.

Tornando al discorso di prima, sognare quello che poteva essere Atene, sognare quello che poteva essere Londra e ricrearle nel momento del lavoro su un dato testo, ti permette di avere una visione più ampia anche del testo stesso, non è così?
Rilke, non so dove, da qualche parte, dice: perché non abbiamo un vero teatro? Perché ci mancano una comunità e un dio. Senza comunità e senza dio non c'è vero teatro. Guardiamo ancora l'Atene del V secolo: c'era una comunità, la polis ferita nelle sue contraddizioni, la democrazia emergente, e c'era un dio, Dioniso, un fantasma dell'anima (se questo è un dio), insieme a tutte le altre divinità dell'Olimpo greco. Il teatro le cavalcava insieme, anima e società. Noi ci siamo detti, a un certo punto della nostra storia, che non bastava fare gli spettacoli: per questo motivo abbiamo accettato di dirigere i teatri di Ravenna. Non era per avere... che cosa? Una poltroncina sotto al sedere? Ma quale poltroncina! Era per inventarci una sfida radicale: dobbiamo costruire un mondo, all'interno del quale avrà poi senso fare gli spettacoli.

E i ragazzi della non-scuola possono aiutare a creare la società, la polis, Atene?
Quando abbiamo iniziato la non-scuola io non ero consapevole di cosa ci stava venendo incontro: avevamo trovato come una vena d'oro, una vena sotterranea che poteva allargarsi e diventare miniera. Anarchia e bellezza, questo ci raccontava l'esperienza della non-scuola, e questa scoperta ha influenzato i nostri spettacoli, e i nostri spettacoli hanno poi a loro volta ricolorato la non-scuola. La non-scuola è in relazione viva anche con gli altri gruppi che lavorano a Ravenna, è in relazione con gli spettatori che crescono, i nuovi spettatori: in 10 anni si è formata una nuova generazione di spettatori. Tutto questo è davvero un cantiere a cielo aperto, un cantiere in divenire, che continua a farsi. Guai al giorno in cui crederemo che la cattedrale sia finita: allora dovremo cominciare a distruggerla!



Pubblicato anche su "Lo straniero" n. 29 - novembre 2002 con titolo "La rivincita di Dioniso.

*Intervista a Marco Martinelli da parte di Paola Bartoli, che ha frequentato la non-scuola per tre anni all'ITIS (Istituto tecnico industriale Statale), dal '92 al '94, e oggi è guida nella non-scuola. L'intervista fa parte della tesi di laurea "Attività teatrali con la partecipazione di studenti della scuola media superiore", data da Paola Bartoli al DAMS di Bologna, relatore Prof. Luigi Gozzi.



L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -