Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Materiali per un Teatro futuro: #3    
     
Un editoriale di Mariangela Gualtieri
di Mariangela Gualtieri
     

"non ardito perché ardente
fuggir lascio la fortuna,
che inseguita dalla gente
ansimando si consuma"
(Clemente Rebora)


Forte antipatia per questo assillo del "nuovo".
Il nuovo è il vecchio al principio. Ha già in sé
il vizio del vecchio che lo mangiucchia. Mi chiedo:
è un problema solo occidentale? Forse quello che non mi piace
è il costante fare finta che il nuovo sia un progresso
rispetto al vecchio e che il nuovo sia il meglio. Il nuovo non è il meglio,
lo sappiamo e ci viene continuamente dimostrato dalla sua
inevitabile perdita di fragranza, dal suo diventare ben presto vecchio.
La mia ambizione teatrale è più grande di questa solfa
del "nuovo": avere parole che non si consumino. E non per
ottenere durata: ciò che non si consuma
(la poesia ha appunto questa straordinaria proprietà)
ha le proprie radici nel molto lontano e nel molto umano.
Arco voltaico fra terra e cielo, ciò che non si consuma
ha spesso, per i propri contemporanei, un'aria goffa e fuori tempo,
e quanto più è spirituale, tanto più ha
"quella particolare rozzezza e timidità...
passo impreciso che non si dimentica". Tutto ciò che mi è
arrivato dal tempo lontano e che ha mantenuto
la fragranza del nuovo, pur essendo antico,
ha terribilmente a che fare col sacro: fa ponte
fra qui e ciò che non sappiamo. Tutto ciò mi rende ebbra.
E' avventuroso. E' vertiginoso. E' nell'entusiasmo.
Non ha a che vedere con la gara nevrotizzante
del nuovo, di chi fa il più nuovo di tutti, del primo della classe,
del potentato di turno che gli appunta la medaglia al petto.
Quanto goffi dovevano sembrare Leopardi e Hölderlin e Campana e Artaud,
e Nietzsche e altri bellissimi esemplari della specie, quanto goffi agli occhi
dei loro eleganti coetanei alla moda. E anche Dante forse, e forse Shakespeare.
Il teatro che si farà (se faccio un sogno lo faccio bello),
porrà rimedio al più grave disagio del nostro tempo: la distanza fra
il nostro dentro e il nostro fuori, per dirla nel modo più semplice. La frattura
fra "la nostra vita esteriore e la nostra natura più profonda",
ciò che profondamente sentiamo e le vite che facciamo,
quell'abisso fra il nostro cuore e il nostro agire, quello slabbro così squilibrante,
che fa di noi occidentali forse i più infelici di questo pianeta,
i più intossicati, i più orfani, i più soli, i più nervi tesi,
i più teste scassate, i più depressi, i più impotenti.
Nel futuro, quando essere famosi sarà un incidente di percorso
dal quale si vorrà uscire il prima possibile, quando saremo per forza
più lenti e attenti, quando il desiderio di potenza sarà la patologia di qualche
raro malato, e ogni desiderio di plauso sarà considerato servile,
in quel futuro nessuno avrà più voglia di essere intrattenuto
dal virtuosismo di qualcuno. La società dello spettacolo
finirà logorata, sfinita, annoiata. Si andrà a teatro per ridere
o per piangere, in ogni caso per fare un volo alto, quello degli esorcismi,
delle formule magiche efficaci, dell'estasi, dell'orgiasmo,
dell'ebbrezza, dell'entusiasmo. Si andrà liturgicamente, risvegliando i simboli,
rismuovendo il mito. E l'ebbrezza era "uno degli effetti principali del mythos.
Le culture che non lo sanno più sono prosaiche e inaridite. La sete di miti è
la voglia di una sostanza inebriante che possa stimolare e vivificare".
Si andrà a teatro per essere, vivere e sentire come dèi.
Ma poiché per fortuna la vita è più sbalorditiva di qualunque previsione,
e non c'è regola che fissi l'apparire del bello in questo mondo,
tutto ciò che si scrive sul futuro è relativo e modesto. Pazienza.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -