Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


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Oltre l'arte, oltre la negazione    
Polaroid #1      
di Goffredo Fofi      

Questo articolo è apparso sul mensile Lo straniero n°44 (Febbraio 2004) all'interno di un focus sul progetto Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio. (Una critica su R#07, spettacolo da cui parte la riflessione nell'articolo, si può trovare in archivio).

Nella disperante situazione del teatro italiano contemporaneo, dove ormai si contano sulla punta delle dita delle due mani e forse di una sola i gruppi che reagiscono alla dittatura della comunicazione-spettacolo e alle sue leggi scritte e non scritte, con la complicità di una critica mai prima così vile e superficiale, sa di miracolo l'esistenza della Raffaello Sanzio, con la sua ostinata e perentoria diversità.

Del loro ciclo Tragedia Endogonidia può essere in grado di parlare adeguatamente soltanto chi ha visto tutte le sue "puntate", quanto meno in video. Ragioniamo qui a partire da una puntata particolare come quella romana, R.#07 Roma, che nelle numerazioni di Romeo Castellucci riempie la settima casella ed è proprio dedicata alla Città Non Eterna, per i suoi due temi o immagini centrali, la Chiesa cattolica e il Dux di ieri, con qualche richiamo al dopo. È da poco uscito il volume della Ubu libri Epitaph, nel quale Castellucci ha montato da par suo le foto di una vicenda artistica unica (pp. 256 in grande formatom euro 29,00, con interventi di Frie Leysen, Alan Read e Quadri e Ventrucci). Una galleria di umane imperfezioni e di morte della storia.

Non intendo analizzare e discutere la "carriera" di questo gruppo geniale e neanche l'ultimo spettacolo; di fronte ad artisti come Castellucci il critico avverte tutta la sua insufficienza, in particolare se è poco "ferrato" nei campi in cui bisognerebbe esserlo di più, che per Castellucci sono davvero molti, dalle arti visive alla teologia... e ci sono, ad analizzarlo "critici ferrati" come Giacchè e Nanni, c'è Castellucci stesso a chiarire. Mi limiterò dunque a impressioni che si collegano a discorsi più generali e a servirmi di Castellucci come pretesto, nella convinzione che sia arrivato da tempo il momento per discussioni "a cuore aperto", se è vero, come ritengo, che l'abisso ci attende. (È sempre stato vero, si dirà, ma oggi lo è sul serio, e se anche non fosse un abisso materiale, è certo spirituale e mentale.)

Punto di partenza dell'ultimo Castellucci è la scimmia, nostro progenitore e specchio e memento; e il rapporto tra Chiesa e potere politico, tra Religione - istituzione e divieto - e Fascismo - resa dell'umano alla violenza bruta il cui esercizio è affidato a un Potere e benedetto da un altro. Vedi, in questi giorni, il duo Ruini-Berlusconi. In breve, la nostra storia e antropologia catto-fascista.

Un demone-dracula si vendica del condottiere e un altro, Arlecchino, furbo o presunto, si asserve a entrambi e perfino li guida, ma Dux e demoni sono tuttavia impotenti di fronte all'Ordine delle Cose che ci viene dall'Alto, l'ordine della creazione, voce off di un Dio che predica colpa e la impone, tragedia della creazione. So di essere riduttivo, ma quale che sia la profondità dello scavo teorico e simbolico operato da Castellucci, questo "n. 7" è tra le cose più didascaliche che egli ci ha offerto. La sua altissima sensibilità per la Tragedia che ci chiude nella Storia, in questa unica Storia, e nelle Società, tutte limitanti per definizione, per impotenza del singolo a pensare altro, per quella "paura della libertà" di cui parlava Carlo Levi (la impossibilità di un'altra possibilità), è talmente rara e sincera da continuare a sbalordirci, unita alla sua genialità di regista, cioè di artista-che-pensa. Ma allo stesso tempo ci spaventa, come in altri modi ci è capitato vedendo l'ultimo spettacolo dei carcerati di Punzo e leggendo certi saggi di vicini e lontani che davvero parlano di noi, che dopo questo non ci possa essere che il ribadimento, variante, ritorno, ripetizione, e dunque anche maniera. Perdita della originalità, della sincerità e della forza a favore della retorica, ancorchè altissima? (Della "maniera"? di una sorta di "controriforma sincretica" nelle possibilità e nel dovere di una "Riforma essenziale"?) Anche in chi si dichiarava in partenza nemico della retorica. Nel caso dell'ultimo Castellucci si constata anche la validità di un antico sospetto: la presenza di Fellini (soprattutto il Satyricon) più forte perfino che quella di Artaud...

Provo a dirla in altri termini, il più possibile chiari, anche se riduttivi. Il pensiero centrale del nostro tempo è e non può che essere il nichilismo, giustificato oggi più che in qualsiasi epoca precedente per la concreta possibilità della fine dell'uomo, che nel suo fallimento e nella sua rovina distrugge il meglio che ha potuto pensare e produrre. È impossibile sfuggire all'incontro tra nichilismo e apocalisse, e talora accade che si leghino tra loro nichilismo ed escatologia nel pensiero ahinoi delirante di un rovesciamento radicale dello stato di cose presente: il ricco non diventerà povero, il sertao non diventerà mare, l'asino non cavalcherà il contadino - ammesso che ci siano ancora asini e contadini.

Lo spettacolo di Castellucci è "tragico" perché ribadisce una condanna e una impossibilità. Il Dio di cui ci fa sentire la drastica voce punitiva potrebbe sconcertare i credenti che non avessero dubbi sul modo in cui è stato e viene utilizzato da chiese e dittature, aperte o velate, e agli altri, ai non credenti bisognosi di ribellione non luciferina, resta ben poco a cui aggrapparsi. E non parliamo qui del "nostro bisogno di consolazione", che in termini alti e non da società della conosolazione mediatica e consumistica è per ciascuno una questione di importanza vitale, ma della "morale" che da queste opere si può derivare. Il mondo della cultura è pieno di apocalittici da quattro soldi, formano un "genere" letterario tra gli altri - è un mondo pieno di profeti e tremendamente privo di eretici - ma più che la preoccupazione della maniera e della retorica ci angoscia la paura che possa crescere troppa distanza dalle posizioni oltremodo serie di certi artisti e certi pensatori vicini e vicinissmi, nella riflessione sul nostro posto nel mondo, proprio il mondo di oggi così privo di prospettive, di utopia e probabilmente o semplicemente di futuro.

In definitiva, ci preoccupa la distanza che potrebbe verificarsi nella risposta a una negatività senza scampo; di questi artisti e pensatori stimiamo sincerità e rigore e li consideriamo un riferimento assolutamente indispensabile e fraterno nell'area sempre più ristretta di persone coscienti e pensanti che però, forse di conseguenza, ci appaiono anche sempre più chiuse su di sé: solitudine per solitudine, sofferenza per sofferenza e lucidità per lucidità. Una distanza che potrebbe basarsi su convinzioni sia lontane che vicine. Il nichilismo esclude il messaggio della "carità", esclude in sostanza il lascito del cristianesimo. Lo capiamo, ne capiamo le ragioni o crediamo di capirle. Ma ciò non toglie che ci sia ancora cara l'affermazione paolina sul primato della carità, se in una accezione non retorica, non consolatoria, anzi disperata come nei grandi nichilisti di ieri, da Dostoevskij a Camus. Morta la speranza (l'utopia), c'è ancora chi ha la fede (nell'intelligenza e nelle sue manifestazioni, come questi intellettuali e artisti che maggiormente amiano) ma non ha più la carità. Però nel fallimento di tutto, noi siamo convinti anche del fallimento della fede, del richiamo all'intelligenza anche dei migliori, e alla loro-nostra mancanza di speranza noi non possiamo che rispondere con la riaffermazione della carità. In altre epoche anche vicinissime - per essere più chiari - le "persone di buona volontà", attori senza centralità di protagonismo ma determinati nella loro ansia di "ben fare", avevano anche nel fallimento della politica e della democrazia dei referenti, persone più pubbliche di loro, nel cui pensiero e nel cui esempio congiunti potevano confidare, con cui potevano confrontarsi: degli eretici. Siamo pieni di profeti, siamo sprovvisti di eretici. Non è compito dell'arte l'eresia ma, in mancanza del pensiero e nel dubbio sulle fedi, dove cercarlo? Tender la mano al più infelice di noi o l'abbraccio fraterno con il simile sono la sola cosa che ci resta nella constatazione del disastro. Pur sempre una leva. Questo ci sembra comunque qualcosa di vitale rispetto al cedimento alla morte senza più rivolta. O alle "maniere" sulla morte, ovviamente barocche. Il dovere dell'arte non è darci indicazioni per la nostra sopravvivenza, che non chiederemo mai a nessun vero artista: il problema non è suo, è nostro. E significa per noi, oltre l'incontro con l'altro e l'aiuto e quel tanto di "pedagogia degli oppressi" o meglio "tra oppressi" che sono ancora possibili, significa pur sempre un'indicazione di lotta. Non posso continuare, continuerò. Sganceranno l'atomica e distruggeranno tutto, ma finchè avrò forza fino a un momento prima dell'esplosione è mio dovere di uomo far tutto ciò che posso perché questo non avvenga. E cercherò, in questo, di non essere solo.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -