Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Nazionale

La piazza oltre il teatro    
Lettera semi-aperta ad alcuni artisti italiani.      
di Gian Maria Tosatti      

"I guerrieri, fratello, i guerrieri del sogno che ti narrai" (Alvaro Mutis)
Cari amici,
probabilmente Artaud avrebbe detto che il teatro non c'entra niente. E probabilmente avrebbe saputo dirlo con parole di fuoco. Io con le mie parole a volte sperse cerco ugualmente di provocarvi.

Quest'estate in Trentino discutevamo su quale fosse lo spirito del Teatro e ci trovavamo d'accordo nell'affermare che "Teatro è nel momento in cui trascende se stesso".

Appunto il teatro non c'entra niente. O più precisamente il Teatro è oltre il teatro.

Perdonerete questi miei facili giochi di parole, come la forse eccessivamente ingenua passione di giovane spettatore con cui vi scrivo.

La ragione di questa lettera nasce dai miei pellegrinaggi italiani, nei quali sempre più spesso m'imbatto in allevamenti teatrali, provvisti o meno del pudore di mascherarsi fucine. Quest'estate scrissi di una generazione (quest'ultima) di artisti senza necessità e pure già ben inseriti nei sistemi teatrali. Inseriti in un quadro sterile e saturo di compromissioni, gestito da miopi burocrati o da prepensionati in pectore, come merce, come prodotti di consumo culturale, come panetti d'arte porzione unica. Tutti autori di lavori pregevoli, il cui sapore è importante che svanisca prima del mattino seguente, che non appesantisca l'alito come certe ubriacature, che non se ne senta l'odore mischiato alle parole che diciamo. Che non si rischi niente.
"Et s'il est encore quelque chose d'infernal et de véritablement maudit dans ce temps, c'est des attarder artistiquement sur des formes, au lieu d'être comme des suppliciés que l'on brûle et qui font des signes sur leurs bûchers" (Antonin Artaud)
Oggi scrivo questa lettera perché a me invece, cari amici, piacciono i rischi, le ubriacature che non lasciano solo l'alito pesante, ma la febbre, l'indisposizione, che rivoltano lo stomaco e sbiancano la faccia, quelle in cui si rischia l'ospedale. E non perché sia un masochista o un estremista, solo perché credo che i veleni non vadano addomesticati, credo che per cambiare bisogna uccidere qualcosa dentro di noi. E non voglio rinunciare al teatro come luogo del sacrificio in cui dar coscienza di sé al germe della rivolta e dove abbandonare le spoglie del suo guardiano.

Con una frase un po' suggestiva qualcuno di voi anni fa diceva che "Il teatro è lo spazio della rivoluzione", intendendo una rivoluzione intima, una rivoluzione dello sguardo, dell'ascolto, della cognizione. Dunque tanto più importante nella sua radicalità. Una rivoluzione che i vostri lavori sono in grado di provocare.

E' dunque impensabile tenere tale forza legata alle briglie di controllori che distribuiscono il razionamento di cibo statale o badano a proteggere il proprio orticello (d'innovazione?). Nell'ultimo decennio quest'istituzionalizzazione ha già fatto della vostra una lingua morta, cui solo pochi, pochissimi s'accostano. Una lingua non ancora depredata di echi originari che non devono spegnersi, morire nelle canalizzazioni irrigatorie, nei fossi, di campi scellerati.

Il Teatro è oltre il teatro. E dunque oltre i teatri. E così deve ricominciare a scorrere come un fiume senza letto, deve allagare le piazze, essere acqua alta, inondazione inattesa. Una rivoluzione, quale che sia, non può e non deve condividere i razionamenti, non può e non deve rispettare gli orticelli. Non può prescindere dal trovare altre strade. Non può prescindere dallo scendere in piazza, dal mostrarsi a viso aperto.

Quando si rincorre la coscienza di uno stato, quando si ha un bell'esercito come il vostro, adolescente, si può scorrere, si deve scorrere come una crociata di bambini, alzare gli stendardi disegnati dai poeti, svegliare le città, affascinare le periferie con antichi miracoli, essere disposti ad ardere fino all'ultimo atomo di sé, pazzi, ma lucidi.

Sono osservazioni un po' romantiche queste, ma non del tutto prive di pratico giudizio. Credo, come diceva il buon Carmelo, che: "solo chi è disposto a perdere tutto ha una possibilità di farcela". E che: "solo chi non ha niente è disposto a perdere tutto". Così la domanda è esattamente questa: cosa abbiamo davvero, a parte la nostra fame?

Quando si ha un bell'esercito come il vostro, adolescente, bisogna scegliere il dove si vuole marciare, nelle arene sorde come gladiatori o nelle strade come cavalieri. Come uomini di rappresentazione o come uomini d'azione.

Voi amici, come avrebbe detto Artaud, col teatro non c'entrate niente. Il teatro è il vostro incidente. Voi che siete canti etici, voi che siete cuori rivoluzionari e glaciali esecutori. Voi che parlate una lingua così antica da sembrare futura, una lingua che brucia a contatto con l'aria e che per questo deve essere sciolta al cielo. Marciate incontro a chi vorrà ascoltarvi, a chi non vi riconosce, a chi ha bisogno delle vostre preghiere, marciate sulle rovine dei teatri, e appiccate il fuoco ovunque. Non attendete che vi sia data la parola, perché questo confuso silenzio fa comodo a tutti.
"Non ne posso più di stare senza la
vertigine, lontano dal tumultuato
petto, nella coperta delle protezioni,
che voglio esporre le mie sette vite
a tutti i venti...

(Mariangela Gualtieri)
"I guerrieri, fratello, i guerrieri del sogno che ti narrai" (Alvaro Mutis)
Cari amici,
probabilmente Artaud avrebbe detto che il teatro non c'entra niente. E probabilmente avrebbe saputo dirlo con parole di fuoco. Io con le mie parole a volte sperse cerco ugualmente di provocarvi.

Quest'estate in Trentino discutevamo su quale fosse lo spirito del Teatro e ci trovavamo d'accordo nell'affermare che "Teatro è nel momento in cui trascende se stesso".

Appunto il teatro non c'entra niente. O più precisamente il Teatro è oltre il teatro.

Perdonerete questi miei facili giochi di parole, come la forse eccessivamente ingenua passione di giovane spettatore con cui vi scrivo.

La ragione di questa lettera nasce dai miei pellegrinaggi italiani, nei quali sempre più spesso m'imbatto in allevamenti teatrali, provvisti o meno del pudore di mascherarsi fucine. Quest'estate scrissi di una generazione (quest'ultima) di artisti senza necessità e pure già ben inseriti nei sistemi teatrali. Inseriti in un quadro sterile e saturo di compromissioni, gestito da miopi burocrati o da prepensionati in pectore, come merce, come prodotti di consumo culturale, come panetti d'arte porzione unica. Tutti autori di lavori pregevoli, il cui sapore è importante che svanisca prima del mattino seguente, che non appesantisca l'alito come certe ubriacature, che non se ne senta l'odore mischiato alle parole che diciamo. Che non si rischi niente.
"Et s'il est encore quelque chose d'infernal et de véritablement maudit dans ce temps, c'est des attarder artistiquement sur des formes, au lieu d'être comme des suppliciés que l'on brûle et qui font des signes sur leurs bûchers" (Antonin Artaud)
Oggi scrivo questa lettera perché a me invece, cari amici, piacciono i rischi, le ubriacature che non lasciano solo l'alito pesante, ma la febbre, l'indisposizione, che rivoltano lo stomaco e sbiancano la faccia, quelle in cui si rischia l'ospedale. E non perché sia un masochista o un estremista, solo perché credo che i veleni non vadano addomesticati, credo che per cambiare bisogna uccidere qualcosa dentro di noi. E non voglio rinunciare al teatro come luogo del sacrificio in cui dar coscienza di sé al germe della rivolta e dove abbandonare le spoglie del suo guardiano.

Con una frase un po' suggestiva qualcuno di voi anni fa diceva che "Il teatro è lo spazio della rivoluzione", intendendo una rivoluzione intima, una rivoluzione dello sguardo, dell'ascolto, della cognizione. Dunque tanto più importante nella sua radicalità. Una rivoluzione che i vostri lavori sono in grado di provocare.

E' dunque impensabile tenere tale forza legata alle briglie di controllori che distribuiscono il razionamento di cibo statale o badano a proteggere il proprio orticello (d'innovazione?). Nell'ultimo decennio quest'istituzionalizzazione ha già fatto della vostra una lingua morta, cui solo pochi, pochissimi s'accostano. Una lingua non ancora depredata di echi originari che non devono spegnersi, morire nelle canalizzazioni irrigatorie, nei fossi, di campi scellerati.

Il Teatro è oltre il teatro. E dunque oltre i teatri. E così deve ricominciare a scorrere come un fiume senza letto, deve allagare le piazze, essere acqua alta, inondazione inattesa. Una rivoluzione, quale che sia, non può e non deve condividere i razionamenti, non può e non deve rispettare gli orticelli. Non può prescindere dal trovare altre strade. Non può prescindere dallo scendere in piazza, dal mostrarsi a viso aperto.

Quando si rincorre la coscienza di uno stato, quando si ha un bell'esercito come il vostro, adolescente, si può scorrere, si deve scorrere come una crociata di bambini, alzare gli stendardi disegnati dai poeti, svegliare le città, affascinare le periferie con antichi miracoli, essere disposti ad ardere fino all'ultimo atomo di sé, pazzi, ma lucidi.

Sono osservazioni un po' romantiche queste, ma non del tutto prive di pratico giudizio. Credo, come diceva il buon Carmelo, che: "solo chi è disposto a perdere tutto ha una possibilità di farcela". E che: "solo chi non ha niente è disposto a perdere tutto". Così la domanda è esattamente questa: cosa abbiamo davvero, a parte la nostra fame?

Quando si ha un bell'esercito come il vostro, adolescente, bisogna scegliere il dove si vuole marciare, nelle arene sorde come gladiatori o nelle strade come cavalieri. Come uomini di rappresentazione o come uomini d'azione.

Voi amici, come avrebbe detto Artaud, col teatro non c'entrate niente. Il teatro è il vostro incidente. Voi che siete canti etici, voi che siete cuori rivoluzionari e glaciali esecutori. Voi che parlate una lingua così antica da sembrare futura, una lingua che brucia a contatto con l'aria e che per questo deve essere sciolta al cielo. Marciate incontro a chi vorrà ascoltarvi, a chi non vi riconosce, a chi ha bisogno delle vostre preghiere, marciate sulle rovine dei teatri, e appiccate il fuoco ovunque. Non attendete che vi sia data la parola, perché questo confuso silenzio fa comodo a tutti.
"Non ne posso più di stare senza la
vertigine, lontano dal tumultuato
petto, nella coperta delle protezioni,
che voglio esporre le mie sette vite
a tutti i venti...

(Mariangela Gualtieri)

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -