Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 34
Dal 29/04/2024
al 06/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Titolo: Emorragie di una creazione
Forma: Appunti incompleti per un resoconto.
 
Verso una nuova trilogia: #2 – Due studi per un ponte fra due trilogie.      
di Gian Maria Tosatti      

Modena – Chiesa di San Paolo, marzo 2004: Sermone ai cuccioli.

Un coro di divinità attende un doppio avvento.
Le pance gonfie delle donne sono due globi in movimento di nuvole, in rotazione, pulsazione di mondi.
Una nascita bianca e una nascita nera. Ecco il punto in cui gli opposti si toccano e si compenetrano sono, prima di essere, uno e due contemporaneamente, fusi nel punto limite dell’attesa.
C’è attesa. In quest’olimpo precario dai caratteri Indù, in questo tempio sul punto di crollare. Da un’altezza angelica. L’altezza delle fantasie religiose dell’infanzia, evocate dall’interferenza continua dell’architettura ecclesiastica.
Ecco nel parasdosso di questa chiesa stuccata e stucchevole, vuota di Dio e dei santi, queste figure zingare del paradiso, accamparsi per una messa, una benedizione alle creature nascenti, frutti metonimici dell’umanità.
La loro voce attraversa i corpi delle loro madri, i loro dis-umani gusci.
Poi tutta la tensione si chiude nei pugni di una donna cieca. La vibrazione delle pareti è parola e voce. E’ ruggito dolcissimo e dolente. E’ tutto in un corpo colonna. Nel suo tremare di colonna che sostiene l’opposizione di terra e cielo. Che è all’altezza dei testimoni che l’ascoltano. Dice e mozza il fiato. Lo strappa dalle nostre bocche e ci atterrisce col suo insegnamento di leonessa, di madre animale.

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Padova – Bastioni Alicorno, maggio 2004: So dare ferite perfette.

Sotto terra. Questa volta la creazione è meno unitaria. Un quadro meno sospeso.
C’è violenza. Prepotente interferenza del mondo in questo cielo di sgozzati.
Il sangue è visibile. E’ il marchio della grazia.
Ecco una legione di crociati bambini. Di innocenti di fronte al mare. Si vanno incontro. Il mare resta chiuso. Il sacrificio è l’unico fine possibile.
Il sacrificio di questi volti scorticati. Di queste “teste rotte”, per dirlo con la Gualtieri.
Eppure si ha la sensazione che non ci sia rappresentazione. Che non si stia rappresentando, ma consumando. Si consuma un tempo e un luogo fisico. Un tempo che non corre parallelo a quello degli spettatori, ma gli è coincidente. Come il luogo.
Ecco che qui il teatro si mostra nudo. Senza rimandi. Senza magia.
Con la sua presenza di mostro infinitamente vecchio. E pesante.
Sostenuto dalle gambe precipitate di una donna giraffa.

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Riflessioni.
Concepire il passo successivo. Dopo l’affondo crudo e pietoso di Imparare è anche bruciare.

Quella che poterebbe essere definita una “trilogia della rivolta” traccia gli assi di un quarto passaggio.

Una “trilogia” che non poteva essere chiusa. Iniziata appunto per aprire, per crecare una nuova lingua, una nuova bocca di necessità attraverso cui inspirare l’aria di fuori e restituirla in accor(d)ato canto.

Concepire quel passo successivo che era già presente come energia della genesi. Prepararsi al verbo indicativo presente.

Un verbo che per ora si manifesta in carne di adolescenti, di attori che danno corpo a questa parola, che sono lo spazio fisico e il tempo di coniugazione dell’atto teatrale che trascende sé stesso ed è azione rituale della comunità umana.

Nelle due feritoie aperte dal Teatro Valdoca, in questo cammino di preparazione ad un lavoro che attende il suo debutto, questo s’è potuto vedere. L’esser precipitati al centro della terra con Chioma, l’aver ripercorso l’atto d’amore della creazione in Predica ai pesci ha condotto Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri alle radici di una razza trovata nel terzo passaggio della “trilogia”, quell’Imparare è anche bruciare che per molteplici assonanze si può definire come il parto di una generazione.

Ronconi ha trovato una generazione, questa nuova, ultima di guerrieri ventenni, ne ha rinvenute le armi di poesia e determinazione alla violenza e ne ha fatto un esercito antico, un esercito deciso ad espugnare città attraverso il sacrificio. Ha rinvenuto i corpi, gli arti, di un gruppo di ragazzi che sembra non abbiano altra possibilità che soffrire, scendere nella gola del dolore per farsi cura.

Il suo teatro diventa allora uno strano circo mistico. Ma un circo prima di tutto, in cui la morte è vera. In cui le maschere sono facce e le scorticature ferite esposte come lasciapassare per la grazia. Uomini e animali si mescolano allora, uomini con teste di animali, uomini in pezzi o dai grandi cappelli, minacciosi clown, coro tragico, ispirato.
Ronconi è allora maestro di quei clown e Mariangela Gualtieri una di loro nel tentare un balbettìo attuale, nel tentare l’incisione della parola nella giugulare del presente.

Il quarto passo del cammino pare scoprirsi, il campo si allarga ancora di più. E’ un iperuranio, un olimpo che si rende visibile attraverso gli echi di un’immaginario mistico Indù. In cui il sangue è il legame di parentela, il passaggio obbligato, la porta antenata tra il mondo degli uomini e quello delle divinità.

Ma è sempre questa “palla celeste” che in sé forse contiene anche il suo cielo a restare in primo piano. Il cielo pesa qui come una volta curva, come un coperchio, come il soffitto di questi cunicoli di bastioni, che gocciolano. Questo cielo sotterraneo è il luogo in cui risuona con più violenza la bestemmia. In cui si insinua la nota scordata che affonda dagli elementi disastro e filtra come l’acqua che consuma le pareti degli antichi bastioni padovani.
Qui sotto terra però tutto è reale. Sono negati i rimandi. Il teatro è presente. Non come luogo in cui dire, ma come modo per dire. Non si cerca di uscirne, ma anzi lo si impugna fino in fondo. Gli si recupera identità. Non c’è rappresentazione, non c’è metafora. Quello che vediamo è quello che è. Un gruppo di clown la cui presenza trasfigura nell’immagine che gli sta oltre, la trama della realtà di cui essi sono fatti e di cui ardono.

Sono due schizzi. Due disegni. Che non è chiaro quale relazione abbiano con la creazione dell’affresco. Appunti, come quelli di chi scrive, che ad oggi appaiono come ponti sospesi davanti ai nostri piedi fin oltre le nuvole, dal precipizio a cui eravamo arrivati.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -