Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 36
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


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Salmagundi. Un’invasione  
Esce per Editoria & Spettacolo l’ultima commedia di Marco Martinelli sulla stupidità come sistema di controllo.      
di Tiziano Fratus      

Pubblichiamo la postfazione del volume Salmagundi, di Marco Martinelli, Editoria & Spettacolo, Roma 2004. (www.editoriaespettacolo.it)

Col tempo ho compreso il motivo principale, fra gli altri, del continuo diletto che ricavo dalla lettura delle drammaturgie di Marco Martinelli e dalla visione delle creazioni del Teatro delle Albe. Oltre all’ironia, oltre a ricorso, sovente abbondante e soverchiante, dell’artigianato sulle lingue, del meticciato che abbraccia wolof e ravennate, italiano e fantalinguismi, oltre al saccheggio non autorizzato delle opere classiche e moderne, oltre alla composizione colorata e “palotina” dell’ensemble, oltre all’essenzialità delle messe in scena puntualmente connotate da trovate tanto semplici quanto sorprendenti, oltre alla magia delle variazioni vocali ed espressive emesse da Ermanna Montanari, oltre a tutto questo, se già non bastasse, c’è un carattere fondamentale: la scrittura vissuta come esercizio fenomenologico. I testi teatrali di Martinelli – tutti temprati e riscritti dall’azione scenica – si svolgono in lettura ed in messa in scena come le tavole di un polittico, i personaggi/attori ruotano per scavare nel senso delle ridefinizioni, i termini del linguaggio vengono analizzati nelle implicazioni di significato e nelle associazioni sonore, ed ogni affermazione si porta dietro innumerevoli incastri, innumerevoli giochi di parole. “Quelli delle Albe per fortuna non hanno problemi di modernità”, scrisse acutamente Giuseppe Bartolucci (1).

Fenomenologia dunque, ma non didattica: il moralismo in Martinelli non eccede l’azione sul palco, ed anche quando si fa più esplicita, più goliardica, la voce dei caratteri non oltrepassa quella soglia invisibile oltre la quale il gioco del teatro decade in pattume televisivo ed in sproloquio eulogico, in testo scientifico a tesi, in documento meramente esplicativo. Una venata ironia mette dunque in risalto le piccolezze, le incertezze, le indecisioni, ed in fondo, l’umanità dell’Italietta disegnata da Martinelli nel corso di vent’anni di scrittura. Ma si tratta d’un’ironia sottile, mai sfacciata, quasi un’anti-ironia che si misura nel compito di trascinare lo spettatore allo specchio, talvolta rivalutando anche gli aspetti negativi. Tutto questo era presente in Ruh. Romagna più Africa uguale, Siamo asini o pedanti?, Bonifica, I Refrattari, I ventidue infortuni di Mor Arlecchino, Incantati, I Polacchi… tutto riemerge in Salmagundi, una “favola patriottica” nell’Italia del 2094, un paese baciato dal miracolo sanitario, una situazione che ravviva il ricordo delle simpatiche bricconate che venivano propagandate dai teorici della gioventù fascista e della più seriosa purezza della razza ariana. Da circa tre decenni nessun italiano si ammala. Vanto dell’avanzamento scientifico italico è L’istituto Nazionale per la Prevenzione delle Epidemie, emerito ricettacolo delle massime autorità in ambito medico. Il giovane laureato Julius T. Merletto, un perfetto-imbecille ben impersonato da Alessandro Renda, scopre che lo Zio Gustavo è ammalato al cuore, e prima ancora di imbustare la lettera viene invaso dai membri dell’Istituto, che occuperanno l’abitazione fino al compiersi della favola. Durante l’invasione si avvicenderanno siparietti da teatro di rivista, si mescoleranno tentativi di scalata ai vertici, tradimenti, e troveranno modo di evidenziarsi le reali incompetenze dei vari luminari. L’emerito Istituto si disvelerà dunque come istituzione solennemente svuotata da ogni competenza ed i membri moriranno ammalandosi nell’abitazione di Merletto. Una debacle tutta italiana.
Lo spettacolo offre la compresenza in scena degli energici attori scelti della truppa palotina, che dal ‘98 con lo spettacolo I Polacchi incendiano i palcoscenici d’Italia e di mezza Europa con le loro asprezze – negli ultimi anni vanno ricordati anche spettacoli come Imparare è anche bruciare dei Valdoca, Noccioline di Paravidino per la regia di Barbara Nativi, Binario morto di Letizia Russo già ampiamente applaudito in Inghilterra e Portogallo, al debutto all’ultima Biennale di Venezia – e delle colonne della compagnia, Luigi Dadina e Maurizio Lupinelli, entrambi ottimi nel definire il ritmo delle trasformazioni in scena, nel tutelare l’amalgamarsi delle individualità, o come si direbbe in gergo calcistico, nel dirigere il gioco in campo. La regia di Martinelli riesce nel non facile compito di organizzare i movimenti e le staticità di ben venti attori racchiusi in uno spazio ristretto, nell’orchestrare il “processo di saturazione dell’inquadratura” (2), con diversi fermi immagine che ricordano un patinato scenario caravaggiesco. Ottime le luci, firmate da Vincent Longuemare.

Ottimo l’intero cast fra i quali spiccano per asciuttezza di gesti e modulazione di recitazione Michela Marangoni, nella parte della Signora Balsamo (la famiglia del Mese) e Daniela Bianchi, nella parte della madre defunta del protagonista. Da sottolineare come questo spettacolo raccolga una delle recenti riscoperte del cinema – penso ad esempio a Zatoichi di Takeshi Kitano, e prim’ancora a Dancer in the dark di Lars von Trier – ovvero la danza in scena: durante la celebrazione dell’inno nazionale gli attori si esibiscono in un misurato tip tap.

Fondamentalmente c’è un senso di continuità, di permanenza, di invariabilità, nell’osservare l’Italia inventata – e nipote nel suo realismo magico di quelle coniate da Massimo Bontempelli – e al contempo specchio dell’Italia fascista, con certi ridicoli rituali, il consenso diffuso, l’ipocrisia, e poi nemmeno tanto lontana dalle Italie dei periodi successivi, come quella democristiana dell’immediato dopoguerra, il craxismo, ed oggi, il berlusconismo: l’arroganza al potere che annulla ogni varianza e pare unificare gli spiriti. Salmagundi non va recepita riduttivamente come semplice farsa, quale favola ironica o commedia scoppiettante. La levità delle drammaturgie di Martinelli si sposa ad una visione critica, negativa: “poco consolante e perfino disperata”, come ha scritto Antonio Attisani (3). E’ difatti un’altra peculiarità dei testi di Martinelli quello di lasciare sottilmente interdetti, sorpresi, disturbati di fronte ad un mondo visto attraverso le lenti di nuclei familiari piuttosto che attraverso le dinamiche di ascesa e declino nella gestione del potere: quanto la stupidità riesca, nonostante la lezione della storia, a governare i rapporti umani ed istituzionali. E resta in bocca, a fine lettura e/o a fine spettacolo, un sapore d’incredulità non dissimile da quello che si prova a vedere i filmati di giovani neonazisti e vecchi nostalgici soldati della Wermacht riunirsi in Austria, ancora oggi, a pochi chilometri dal confine italiano, per celebrare il compleanno di Adolf Hitler.

Prologo a Salmagundi è un breve testo a due personaggi (4), raccolto nel presente volume, Vi e Ve, un incontro surreale fra due anime che si aggirano nell’ombra d’un’Italia estemporanea, il Veronese, celebrato pittore, e Vittorini, fra i massimi scrittori di metà Novecento, autore di romanzi come Conversazioni in Sicilia, intenti in una partita a carte. Ma da subito i contendenti si dimostrano maschere, le anime del pittore veneto e del romanziere siciliano sono in prestito, la distanza è primariamente linguistica poiché i nostri Vi e Ve adottano un dialetto distinto, il folignate.

Come in Salmagundi nodo centrale è la libertà di pensiero, sprofondati in un mondo governato dalle cerimonie e dall’onnipresenza del controllo, due persecutori della creatività dialogano sul rapporto con i rispettivi sovrani, con i referenti del proprio tempo. Se il Vittorini si trovò a difendersi dai fendenti del dogmatismo che si ammucchiava sui tavoli di Togliatti e colava dai dossiers di Botteghe Oscure inondando le pagine dei giornali e le stanze della cultura, il Veronese venne più volte richiamato all’ordine dal Sant’Uffizio della Santa Inquisizione. Ma “noi pittori tocca pijasse le stesse libertà che se pijano li poeti e li matti” risponde il Veronese ai numi tutelari della morale universale, mentre il Vittorini ostenta la ferita purulenta che giace in fondo agli spiriti liberi, alle anime perse che combattono ogni giorno per affermare un pensiero personale, una libertà estetica, per reclamare dignità: “Io c’ho na ferita qui su le coste aperta jorno e notte come na farmacia automatica e dentro quella ferita sanguina la terra sanguinano li calpestati e l’offesi e le montagne svotate e le donne incassettate e le foreste infraciate e li nostri colleghi animali e ogni lacrima è la mia e io lo so de non poté fa più gnente pe loro e l’arte ancora de meno grida piagne e se dimena la sua ora come na scema e poi gnente che non ce sò più beatitudini da assegnà ne città de lu sole da mette in cantiere solo lacrime lacrime patinate che una su quill’antra scompaiono dentro quillu mare triste e avvelenato do gallegghja la suddetta sponsorizzata vottijetta”.

L’unica missione, per un artista, oltre il tempo, oltre le stagioni, è la facoltà di parlare senza lacci, di stracciare i veli che accomodano la verità.

(1) Cinque variazioni per intendere un giovane gruppo: le Albe di Giuseppe Bartolucci, in Ravenna africana, a cura di Marco Martinelli, Essegi, Ravenna, 1989; quindi nel volume antologico Teatro impuro, Montanari, Ravenna, 1997.
(2) Dal documento Domande al presente in forma di lazi di Marco Martinelli.
(3) Il verde e il nero di Antonio Attisani, in Bonifica, Ravenna, Essegi, 1991; quindi nel volume Teatro impuro.
(4) Vi e Ve - metalogo nel regno delle ombre è andato in scena alla trentaquattresima edizione del Festival di Santarcangelo dei Teatri, regia e interpretazione di Michele Bandini e Emiliano Pergolari.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -