Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 36
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al 20/05/2024


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Un altro diario disordinato sull'Endogonidia  
Ha debuttato R#07, settima tappa della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio.      
Roma, 21-30 novembre 2003
di Gian Maria Tosatti
     

ROMA - S'è già detto in precedenti occasioni quali siano le difficoltà oggettive di ragionare in maniera completa sulla Tragedia Endogonidia. Indipendentemente dal fatto che tale compito possa considerarsi possibile o meno, è qualcosa a cui per il momento abbiamo rinunciato. Così nel trattare l'episodio romano del ciclo tragico transeuropeo che la Societas Raffaello Sanzio sta sviluppando, ne proporremo una visione inevitabilmente parziale, una parte di discorso aperto che cerchiamo di condurre parallelamente all'iter performativo.

Sarà comunque utile introdurre una visone generale di R#07, presentato al Teatro Valle in ambito al Romaeuropa Festival.

L'apertura è su una grande gabbia di cristallo, la gabbia di un ipotetico laboratorio in cui siede un primate che mangia e si muove con grande naturalezza, si copre con un panno bianco e di tanto in tanto guarda oltre il vetro la platea. Una scena di dieci minuti che serve da raccordo con i precedenti episodi, con la logica della Tragedia Endogonidia. L'esposizione di un animale come negazione della rappresentazione, negazione della possibilità di rappresentare. Questa disarmante confessione, codice genetico radicale del progetto raffaellosanziano, è ripetuta dal tabellone alfabetico che, una volta chiusosi il sipario, mette per la prima volta in aperta relazione lo spettatore con il principio creatore dell'opera che a Roma per la prima volta si chiama "io" ("Sono io che vi parlo" - appare scritto, facendo esplicito riferimento all'incanto teatrale).

Da questo momento il telo bianco che nasconde il palcoscenico si apre di nuovo e inizia il flusso tragico dell'episodio. Appaiono ombre di figure eviscerate dal flusso della storia cronologica per essersi fuse nell'ombra della coscienza individuale. Un diacromatismo di bianco e nero identifica due ordini istituzionali coincidenti nella storia del Novecento di cui Roma è stata ed è tuttora luogo fondamentale, spazio originario arcano, frontiera dimensionale tra il reale utopico e il mitico (mi si perdoni quest'espressione ad intendere anche la sfera religiosa). Il clero e il fascismo (distinti dal colore nero), il papa e Mussolini (nei propri abiti bianchi, un accappatoio e un completo, che non definiscono mai l'esatto confine tra le due figure). Un'oscillazione prospettica scioglie le sagome di questi personaggi che sono morti a Dongo o ipersollecitati alla loro scrivania, sono disumanizzati come morenti, sono espansi spazialmente e osservati al microscopio nel conflitto ossessivo con personaggi misteriosi e anonimi che tornano come contrappunti attraverso i vari episodi europei e che sembra agiscano sempre per rimando di una volontà innominata come loro, ma in più inimmaginata.

Particolarmente legato ai problemi della comunicazione e dell'identità dello sguardo, della coscienza pubblica e individuale, proseguendo il discorso iniziato a Parigi (vedi critica in archivio) è anche questo episodio romano, in cui il teatro è messo in scena senza tanto pudore nei suoi meccanismi strutturali di finzione e nella verità della presenza umana. Nella densissima ora di durata di questo episodio, che tiene in frenetica attività inerziale l'attenzione dello spettatore, si insiste in modo costitutivamente riflessivo sul luogo fisico della tragedia, sullo spazio in cui essa viene agita.

Questo ci dà lo spunto, dunque, nei nostri disordinati appunti di viaggio, di riflettere sulla meccanica dell'esperienza "neo-tragica".

In sintesi nella Tragedia Endogonidia è cancellata la spazialità dialettica tra soggetto e oggetto, viene negata la distanza contemplativa del fatto. L'azione scenica coincide dunque con l'azione dello spettatore. La struttura tende così ad assumere una forma temporale psico-dinamica non discorsiva, in cui viene abbattuta la frontiera traduttiva che si palesa nello scalino tra palcoscenico e platea.

Lo spazio scenico è spazio cerebrale, attività subordinante, flusso guida, accordo armonico del pensiero chimico. Lo spettatore non "assiste" a nulla. Non assiste. Piuttosto è assistito. Viene svuotato come un animale ancora vivo delle sue interiora. Non è quindi uno stato di coscienza, quanto un attrito di cognizione a consumarsi laddove nulla accade di oggettivo se non l'apparire di sfocate figure preesistenti, di curve opache, la cui visione disinnesca gli automatismi complementari del cervello per imporgli un silenzio di trascendenza, un'attività inerziale su cui non si può intervenire né nel compiersi presente dell'episodio tragico, né nelle implicazioni a posteriori.

Rispetto alla meccanica cognitiva dello spettatore Tragedia Endogonidia ha dimostrato finora di agire in due prospettive diverse. Queste prospettive disegnano le figure di un cono e di un cono rovesciato. A quest'ultima compete lo spazio principale nell'iter progettuale concepito strutturalmente in divenire rispetto al presente storico e ai suoi mutamenti. Partendo infatti dal punto di contatto tra la necessità tragica nel tempo e nello spazio di ogni singolo episodio, viene a tracciarsi un asse immaginario che riproduce il tempo-durata fisico dell'azione scenica, attorno al quale si inanellano come onde in espansione i riflessi delle più remote, archetipe ascendenze che il sasso tragico smuove come correnti nello stagno dello spettatore, e che appaiono come presenze nello spazio performativo in forma di personaggi enigmatici.

L'altra prospettiva è quella conica semplice, cioè quella che parte dalla generica di una temporalità più vasta, come può essere l'area circolare di un secolo sospeso, per poi attorcigliasi in spirale fin nel luogo in cui tutti i punti dello spazio coincidono nell'unico che configura la necessità dello spettatore ad essere presente alla funzione tragica. E' questo il caso di Parigi e specialmente di Roma, in cui il movimento episodico s'è generato dalle periferie di cicatrizzazioni storiche generali per poi stringere, strangolare, sul rapporto intimo di quella collettività assembleare presente in sala attraverso quel determinato flusso epifanico, fino alla cronica relazione identificatoria del singolo con l'enigma, "captato" nel momento presente.

In una provvisoria conclusione di questa pagina di diario si dirà che Tragedia Endogonidia è qualcosa che lentamente appare. Che denuncia la propria identità quasi scolorando le ombre di una ricerca partita nella cecità visionaria con una rotta precisa più che con una destinazione decisa.

In queste sette tappe ha mostrato il volto di qualcosa che è assai distante dalla tragedia attica e che pure sembra lontano dalla definizione di "tragedia del futuro", ogni tanto apparsa nelle dichiarazioni a riguardo.

A questo punto tale progetto si mostra essere come il "movimento verso", il pre-tragico artificiale, il motore ostinato, la conscia scatenante di una reazione bio-artistica che non produrrà qualcosa di definito (un corpo che all'undicesima tappa sarà ricomposto in un'organicità impossibile), ma svelerà, oltre il visibile, la possibilità di una nuova forma di azione.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -