Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 36
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La prima impressione di C#01  
Un evento chiuso al pubblico il primo episodio della Tragedia Endogonidia      
Cesena, 25-26 gennaio 2002
di Simone Menegoi
     

La prima impressione di C.#01 è: frammenti sparpagliati. Tolta la cornice che li racchiudeva (la fabula degli spettacoli precedenti), si sono rivelati preda di una forza che li scaglia via. . E’ vero alla lettera: i corpi e gli oggetti tendono a esorbitare dal contenitore scenico, si rovesciano fuori come i pezzi di un gioco dalla scatola. E la traiettoria di questa fuga è in avanti.

Fin dal principio la superficie dorata riflette la luce invece che assorbirla, la dirige verso di noi. Ma nella prima parte dello spettacolo è ancora possibile contrastare questa forza, spingere in dentro lo sguardo: il suo tragitto è garantito dalla linea diagonale che congiunge il personaggio incappucciato di spalle al taglio del sesso dell’altro abitante della scena. Da quel momento in poi, tutto cade in avanti. L’”oracolo” maledice il teatro dal boccascena; il tabellone alfabetico, l’arciere meccanico, il manichino sotto il lenzuolo sono già oltre questa linea; infine, lo schermo di proiezione è così a ridosso della platea da abbagliarci. La “X” che lampeggia per ultima nella proiezione percussiva e finale delle lettere e finale delle lettere, non ridisegna le linee prospettiche ma “biffa” l’accesso alla scena, lo proibisce all’occhio, anticipando il gesto che verrà effettivamente realizzato alla fine, con i due fili incandescenti disposti a “X” che chiudono il boccascena.

Il problema di C.#01, lo scandalo – se c’è – è quello del tentativo di un Tragico contemporaneo, fatto con materiali contemporanei. Assolutamente contemporanei, oltretutto: anche il Pol Pot di Santa Sofia era un nome proveniente dalla cronaca, ma ormai consegnato alla Storia (*1). Qui, la vicinanza all’attualità è massima, ustionante. C’è un morto ancora avvolto nella chiacchiera dei giornali (*2).

Allora, si può pensare la Tragedia oggi? Con questi materiali? Non lo so, naturalmente. Posso solo notare che è enormemente difficile. Per farlo, bisogna concepire una violenza iniqua e al tempo stesso sacra. E’ l’atteggiamento “meta-etico” di cui parlava Romeo Castellucci a proposito del’Orestea: è il voto degli Ateniesi sulla colpa di Oreste, che dà parità assoluta. Tanti voti da una parte, tanti dall’altra. Atteggiamento che esclude di per sé la presa di posizione politica. Per questo “Caramba assassini” (*3) non può essere un’affermazione ma solo un “virgolettato”, una citazione dalla babele delle voci, così come lo è “Nella piazza in cui sono nato oggi è morto un ragazzo”(*4). Atteggiamento tanto più difficile da sostenere quanto più è prossima la fonte della tragedia stessa. E infatti ho sentito qualcuno del pubblico parlare di “Impegno” e “risveglio delle coscienze” a proposito di C.#01, cose generose nello spirito, ma, per me, del tutto fuori luogo. Nella misura in cui è tragico, questo spettacolo non esprime alcun “impegno” di parte. Che la trenodia del giovane morto - unica melodia, unico momento di possibile commozione – sia cantata proprio da colui che si rivela il suo uccisore, secondo il meccanismo classico dell’agnizione, dice questo: l’identità dell’assassino e della vittima al cospetto del destino.

Questo sì, suonerà scandaloso per molti: o forse no, perché non sarà capito. Personalmente non provo scandalo. Non sento l’esigenza di vedere premiate le mie convinzioni politiche negli spettacoli teatrali. Mi interessa piuttosto la rischiosa domanda sulla possibilità della Tragedia oggi, domanda a cui lo spettacolo stesso non sembra rispondere. Vedo in C.#01 più un interrogativo che una possibile soluzione, qualunque sia. C’è un’immagine ritagliata dalla cronaca e c’è un compianto funebre; ma la tensione che si crea rimane circoscritta, non è agevole legarla a quanto si è visto e udito prima.

Vorrei aggiungere che questo frammento incandescente di realtà, che ha monopolizzato l’attenzione di tutti, non è l’unico dentro lo spettacolo. Certo, lì c’è un nome (non pronunciato peraltro). Ma ci sono altre campionature di realtà banale, bassa, gettate dentro il contenitore teatrale con l’intenzione di romperlo, di sfondarlo, così come si sfonda uno scenario dipinto. Tutto l’incontro tra l’incappucciato marrone e la figura rivestita da una pelle di lattice sembra venire direttamente da qualche coreografia porno dozzinale, con il suo pissing, il passeggino evocatore di infanzia profanata, la “professionista” consenziente e annoiata … C’è perfino l’abusato braciale ross-bianco-nero, ancorché senza svastica. E l’”oracolo” è un pensionato bislacco che sbraita a vuoto, vox clamans non in deserto ma in un bar di paese: questa volta maledice il teatro e la comunicazione, la prossima rimpiangerà l’età dell’oro del Ventennio. E il tabellone sopra la sua testa, che ribadisce le “profezie”, è quello delle stazioni ferroviarie, proprio lo stesso, e viene spontaneo aspettarsi l’orario di un intercity. Cose ottusamente banali, appunto: però rifatte, finte. Paradosso sconcertante. Qui tutto è finto, e denunciato come tale. Finti i genitali, finta l’urina, finto il sangue, finto il corpo che si agita sotto il lenzuolo. (Un trionfo della protesi che mi ha fatto pensare a certi artisti americani, Cindy Sherman, Paul McCarthy…). Ritorna molto forte, come elemento di continuità con gli spettacoli recenti, l’idea del palco come luogo della simulazione assoluta (della retorica), tanto da rendere dubbi anche i momenti di verità letterale, in cui l’apparenza coincide con la sostanza: per esempio il canto acutissimo di Radu Marian (*5), che per quasi tutto il tempo ho sospettato provenire da un’altra persona nascosta, o magari da una registrazione (è ben raro, del resto, sentire un sopranista con un timbro così limpido, a tratti veramente femminile). Si è in un regime di ambiguità che impedisce di credere a ciò che si vede.

Sembra invece venuto meno, insieme con il velario, l’incantesimo teatrale della Genesi, dell’Orestea, in parte anche del Giulio Cesare. Questa scelta, se sarà confermata, conclude veramente una fase di lavoro della compagnia. Non c’è ipnosi a cui abbandonarsi, oppure, quando c’è, il risveglio arriva presto e brusco. Luci accese in sala, entrate e uscite di scena a vista: stratagemmi da Brecht epico, quasi. E’ uno spettacolo dai bordi tranciati di netto. Alla fine non combaciano: cercando di riunire queste tessere in un unico disegno scopro di non riuscirci. Che cosa ho visto? Ho visto il cambio di sesso di una figura indecifrabile; ho visto (e udito) la tonante maledizione del teatro da parte di uno strano profeta; ho visto una proiezione in cui la visione veniva negata; ho rivisto la salma di C.G. che avevo già visto tante volte sui giornali. Metope allineate, piuttosto che parti che concorrono alla formazione di una sola immagine. E con questo, sono ritornato al principio: frammenti sparpagliati.

articolo pubblicato su Idioma Clima Crono (documentazione sulla Tragedia Endogonidia a cura della Societas Raffaello Sanzio)

1. Santa Sofia, Teatro Khmer, è uno spettacolo della Societas Raffaello Sanzio del 1986, i cui protagonisti sono Pol Pot e Leone III Isaurico, l’imperatore di Bisanzio propugnatore dell’iconoclastia.
2. Si tratta di Carlo Giuliani , il ragazzo ucciso da un carabiniere durante la manifestazione del 20 luglio 2001 contro il G8 a Genova.
3. Espressione che significa “Carabinieri assassini”. Veniva digitata nella tabella delle scritte durante la scena dell’Oracolo.
4. Si tratta di una scritta che un anonimo genovese ha attaccato a piazza Alimonia, dove è avvenuto l’assassinio di Carlo Giuliani. Anche questa è digitata nella tabella delle scritte. E’ il sopranista che interpreta il Carabiniere in C.#01.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -