Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 36
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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La sfida del maestro  
Nekrosius arriva a Roma col suo Cantico dei Cantici. Un nuovo viaggio alle radici dell’identità occidentale.      
Roma, Teatro Argentina. Dal 15 al 19 dicembre.
di Gian Maria Tosatti
     

Vilne, shtot fun gayst un tmimes
Vilne yiddishlekh fartrakht,
Vu es murmlen shtile tfiles,
Shtile soydes fun der nakht
”.
Canzone popolare Yiddish

Eimuntas Nekrosius, caposcuola del teatro europeo di questi anni. Prima di conoscerlo me lo descrissero come un uomo intrattabile. Una montagna ruggente. Lo intervistai a Prato, fu una lunghissima conversazione in cui mi sentii scomodo per tutto il tempo. Mi erano stati dati solo dieci minuti, invece parlammo più di un’ora… restammo in camerino fino quasi allo spegnersi delle luci in sala per l’inizio del suo magnifico Otello. I tecnici entravano continuamente per far fretta al maestro. Nekrosius col suo sguardo accigliato parlava a bassa voce con quel tono da vulcano che riposa. L’impresa si fece più complicata quando cominciò a fare lui le domande. L’intervista diventò un discorso, e col mio registratore in mano rispondevo e domandavo a mia volta. Alla fine lo staff del Teatro Metastasio intervenne in forza pregando Nekrosius di far cominciare lo spettacolo e l’intervista finì. Una volta sbobinato il nastro non c’era niente che facesse la sua buona figura in cinquanta righe. Avevo sbagliato l’intervista, ma avevo parlato con Nekrosius del Teatro del Novecento. Sono sempre stato un pessimo intervistatore.

La seconda volta che incontrai Nekrosius fu per domandargli di lavorare assieme. Lui mi parlò di un periodo di lavoro in Calabria, ci andai. Si preparava l’Ivanov che pochi mesi dopo avrebbe debuttato a Roma. Quasi tutti gli attori di quello spettacolo furono presi in quel periodo di studio. Nekrosius mi chiese di essere il suo assistente, ma poi la produzione decise altrimenti e non se ne fece niente.

Nelle due o tre settimane che passammo in Calabria conobbi un Nekrosius che non assomigliava all’immagine del burbero che si diceva. Ivanov in quella situazione ci faceva la figura del fantasma. Era chiaro da subito che sarebbe stato un incidente di percorso. Di giorno il regista produceva un numero impressionante di invenzioni poetiche strepitose pensate e lanciate una dopo l’altra, con una rapidità che lasciava gli attori frastornati e alla sera definitivamente fuori combattimento. Birute, l’interprete-ombra di Nekrosius, finiva le sue giornate in stato di trance. La sera, prima di cena, Nekrosius chiudeva il libro ed era chiaro che la sua mente era già a quello che poi sarebbe diventato il dittico del poeta lituano Donelaitis sulle Stagioni. Nekrosius parlava della Lituania, dell’amore che nutriva per il suo piccolo Paese sperduto a Nord-Est dell’Europa. Parlava della libertà dall’Unione Sovietica, dei sentimenti di una terra cui veniva restituita la sua identità. E faceva capire che negli anni aveva cercato di parlare il russo meno possibile. Donelaitis allora era un passaggio necessario, era il ricongiungimento con quella terra, era una sorta di dichiarazione d’indipendenza dell’anima.

Pochi anni dopo debuttò il suo doppio spettacolo, che in patria venne accolto proprio come si doveva. Nei giorni calabresi Nekrosius ripeteva: i lituani vivono in un Paese così piccolo… L’unica possibilità che abbiamo per parlare al mondo è attraverso i nostri sentimenti. Le stagioni parlarono alla Lituania. Ma il fatto rilevante fu la scelta di Nekrosius di rompere il meccanismo vincente che lo legava a drammaturgie pesanti come quelle shakespeariane in grado di tenere a terra la forza immaginifica delle sue soluzioni sceniche. Così Le stagioni si rivelarono uno spettacolo sbilanciato verso l’alto, i versi di Donelaitis erano un filo esile e fragile tra le visioni del regista.

Dopo un anno Nekrosius torna a Roma, in cartellone all’Argentina il suo Cantico dei Cantici, un’opera che stabilisce con la precendente un legame di continuità assai coerente. Un poema ancora, e un’opera che affonda nelle radici della Lituania. Una canzone popolare parla di Vilna (Vilnius) come della culla del pensiero e della poesia ebraica e le sue strofe sembrano la nostalgia appunto di quelle radici che Nekrosius è andato cercando nel Cantico. Ma il poema attribuito al re Salomone è uno degli snodi principali tra le più profonde radici dell’albero dell’Occidente. E mi pare allora che nella volontà di affrontarlo ci sia tutta la tensione di quel voler parlare ai sentimenti degli uomini da quel piccolo Paese a Nord-Est dell’Europa.

E’ una sfida di cui Nekrosius conosce il valore. E’ una sfida per lui come regista che cocciutamente evita di tornare alle soluzioni semplici, ad autori e tragedie in grado di bilanciare il suo peso e sceglie la via dell’errore. Di tutte le immagini che mi hanno dipinto di Nekrosius prima di fare la sua conoscenza, quella di un uomo che spinge dentro i propri errori fino a sfondarli, a riconduli a virtù, è l’unica che riconosco per vera.

Leggo alcuni passaggi di sue interviste. Dice: “Con il Cantico dei Cantici mi interessava portare in scena qualcosa che a prima vista sembrava impossibile, data la perfezione del testo”. Io ci vedo tutta la volontà di un maestro di rimettersi in discussione fino in fondo. Di trovare l’equilibrio della poesia per la sua stazza da elefante, perché la forma sostenga la potenza del messaggio.

…Il Cantico dei Cantici per me è un racconto d’amore e l’amore ha molte sfaccettature, inclusa quella erotica. Tutta la vita si nutre di sentimenti e di istinti e il Cantico dei Cantici è una poesia del cuore. Oggi può essere considerato un testo davvero esemplare. Sarebbe meraviglioso se la realtà delle nostre vite contenesse realmente almeno una piccola parte dello spirito di questo testo…

Per informazioni: www.teatrodiroma.net

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -