Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 36
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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A proposito di Quartett  
Egum (in)contra Muller: #4 – Una critica dall’archivio.      
di Gian Maria Tosatti      

Quartett di Heiner Muller è uno dei migliori testi del secolo passato. Una variazione eretica (come tutte le variazioni dovrebbero essere) delle Relazioni Pericolose di Laclos e delle sue ascendenze cartesiane, in cui a finire sulla carta è la labilità indagativa di una necessaria ricerca dentro la violenza dell’ineluttabilità, della claustrofobia ossessiva, nello sbattere la faccia contro il muro ancora e ancora dopo che si è capito che non si riuscirà mai a farne una via di fuga. Quartett inizia lì, quando il dolore diventa necessità masturbatoria, affonda con corrosivo piacere nei canali della scarnificazione dell’umano, proprio come quel volto mille volte battuto e che lentamente si trasforma con le tumefazioni, le fratture, lo spaccarsi dei denti, il gonfiarsi degli ematomi, fino progressivamente a far emergere un volto diverso e che pure già abitava quello precedente. Quartett è la diacronia di quella faccia che si osserva attentamente e ride sputando sangue.

Al cuore di questa diacronia arriva Egum Teatro con l’approdo ad un testo che arriva al gruppo di Annalisa Bianco e Virginio Liberti, dopo un percorso di ricerca che è certamente tra i più convincenti dal punto di vista dei risultati raggiunti e della metodologia applicata nei processi di sperimentazione, come una sorta di perfetto paradosso, come il luogo teatrale che sposa idealmente la poetica laddove le si nega. E da questa opposizione dialettica si sviluppa l’energia che porta questo Quartett fuori da sé, lo trasforma in una città sensibile e mutevole oltre lo specchio, un altrove della mente in cui lo spettatore si dimentica come presenza e resta sospensione di passante attraverso il dipanarsi del dedalo di vicoli ciechi che si moltiplicano fino a diventare tutte le strade ed oltre l’ossessività del logorarsi delle fughe impossibili.

Così Egum raggiunge l’origine pulsante di Quartett, in questa capacità di lavorare su infiniti livelli relativi che si penetrano continuamente in un’unità organica viva e autofagocitante, divorata da molteplici mutilazioni. Togliere, togliere il peso della tradizione, togliere la distanza che le pagine assumono nei confronti della vita, togliere l’aureola a parole che non ce l’hanno, togliere gli ostacoli che ci separano dall’origine di quelle parole, dal loro movimento primo, tagliare, tagliare la voce dagli attori, il pensiero dai corpi, continuare a destrutturare sulla scena col pubblico presente per generare la trasparenza che ci permetta di vedere quel movimento interiore che è la ferocia della miseria comune a Valmont, Adriano Celentano, Virginio Liberti, allo spettatore. Nel contrasto teso tra il treno delle voci aeree dei protagonisti, che in playback entrano in simbiosi con il corpus musicale, e la pesantezza dei loro corpi depensati, indifesi e imponenti sotto l’offensiva mulleriana s’accende un atmosfera d’incertezze che dilaga fino ad esplodere nella bufera di violenza consumata consuma muta, e per questo ancora più orrida, oltre il vetro della distanza. Ed è per creare questa distanza, tra il carnaio nel giardino d’infanzia e lo sbigottimento dell’occhio testimone, che Egum costruisce uno dei meccanismi più complessi che si siano visti nel teatro, inventa una struttura performativa perfetta che mette in relazione il testo di Muller (integrale) e la scrittura scenica seguendo quella logica cinematografica per cui ponendo una macchina da presa in fase di zoom su un carrello che retrocede essa genererà una stasi che porta in sé la forza irresistibile di un doppio movimento.

Ciò è esattamente quello che accade sulla scena che presenta una delle più fedeli, lucide e chiare edizioni di Quartett viste in questi anni, e per chi scrive anche uno dei migliori spettacoli.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -