Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 29
Dal 25/03/2024
al 01/04/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Il senso della messa in crisi  
In Les Philosophes di Josef Nadj la messa in crisi dei meccanismi percettivi è condizione essenziale per entrare concretamente nella realtà intima di Bruno Schulz.      
di Gian Maria Tosatti      

REGGIO EMILIA - La genialità di Nadj consiste nel riuscire a portare concretamente lo spettatore ad un altro livello della percezione del racconto. Viene abolita la linearità narrativa, negata in favore di un approccio abbacinante, una educazione ad una temporalità avvolgente che costituisce un luogo autonomo in cui si "entra", cui, inevitabilmente, si "prende parte". Nadj cala dunque attorno al suo ospite le cateratte di un universo altro, la cui apparenza si dà precaria, quasi casuale, sul punto limite di un collasso, ma che è in realtà retto a quel disequilibrio da una semiologia strutturale minuziosa, che fonde il gesto all'immagine e il piccolo oggetto col crepaccio del suo riferimento letterario, pittorico, memoriale. Uno spettacolo di Nadj, dunque, si basa su un tipo di percezione diversa rispetto alla consueta logica frontale tra rappresentazione e testimone. Si ha la netta sensazione, il capogiro, di essere penetrati in uno spazio altro, di esserci dentro ed obbedire alle regole ch'esso ispira. Come si fosse aperta una regione spazio-temporale anomala, in cui essere proiettati al centro del turbine di una memoria viva, in cerca, o di un cervello, nel caso di Les Philosophes quello di Bruno Schulz, animato da immagini, tempi e figure lasciate sospese che sono i riferimenti intimi del nostro meccanismo del pensiero, del nostro "senso dell'orientamento" interno.

Questo rapporto è particolarmente esplicito appunto in Les Philosophes, visto in prima (e forse unica) italiana al RED di Reggio Emilia. E' cercato in un accerchiamento, un paziente agguato, attraverso la progressiva costituzione di una traccia temprale in cui è impossibile ricostruire una cronologia. E soprattutto in cui è impossibile cogliere un ritmo. Tempi diversi scorrono con misure ritmiche differenti, e queste stesse mutano progressivamente, dall'infinita lentezza, dalla stasi parziale che tuttavia conserva inquietantemente una regione di spazio in cui continua il movimento, al cammino a ritroso, alla velocità. Di passato, presente e futuro è quasi impossibile accennare. Il tempo nella sua circostanza è sciolto e solo del suo agire al presente progressivo ci è permessa la cognizione. Di qui s'intende che ci è impossibile conservare dei riferimenti, delle abitudini percettive del mondo da cui siamo venuti. Siamo privati degli strumenti della nostra educazione e dobbiamo ricominciare dallo stupore. Dallo stupore infantile verso una realtà che ci sfugge, che non riusciamo a ordinare, a leggere, ma che ci circonda, minacciosa, sensualmente affascinante.

Questa realtà è appunto basata sull'opera di Bruno Schulz, artista e scrittore del Primo Novecento, il cui immaginario, la cui sospensione di figure tutte risolte in un gesto, nell'incertezza della loro apparizione ad un certo punto, molti punti di contatto ha con gli spettri buoni del coreografo, che popolano le sue creazioni in movimento o i suoi bozzetti. Ed è infatti ai bozzetti che è dato il compito di introdurre, di provocare il primo collasso, il primo capogiro dello spettatore. Ventiquattro tavole video, esposte attorno alla struttura circolare in cui si svolgerà lo spettacolo ci rimandano immagini statiche in cui si nasconde un movimento segreto che lentamente scioglierà l'intera stasi della figura. Si fa il giro attorno a quest'arena in miniatura passando di quadro in quadro, vi figurano gli uomini in nero e i luoghi dell'abbandono in cui si raccolgono tutti i resti del naufragio d'ogni singola esistenza, roba da rigattieri sì, ma proprio perché dimenticata il qualche stanza dalle pareti scrostate, non ancora "venduta". Il primo giro è completato. Quasi tutto sembrava fermo, ma ora le stesse immagini lasciate poco prima mostrano un avanzamento che ne modifica il conflitto. Il fatto di scoprirle vive ci precipita nella loro realtà. Con questa vertigine veniamo introdotti nello spazio circolare interno e fatti accomodare sulle sedie. Sulle pareti di un cubo posto al centro della scena è proiettato un film in cui quelle figure di "filosofi", quattro strette attorno a un maestro, esplorano la natura, scavano buche in un bosco, compiono percorsi di senso in un mondo che interloquisce con loro con voce al pari solenne e ironica. Quando tutto questo è accaduto rispetto ai quadri precedenti? E' ovvio, contemporaneamente, come l'azione performativa che ne segue. Cinquanta minuti mozzafiato, tesi tra danza teatro e clownerie, in quel punto di sintesi altissima che ad oggi Nadj sembra aver da solo raggiunto. Un meccanismo in cui lo spazio, la visione e l'atto performativo sono fusi in un unicum organico in cui non è possibile scindere nulla, segnare la traccia in cui distinguere. Lo spettacolo è un corpo unico nel tempo e il tempo è il centro dello spettacolo.

Si esce e si torna alla realtà di fuori, scontata, con un certo senso di sospetto. Come se quella che abbiamo davanti agli occhi fosse solo una delle migliaia possibili.

P.S.
Registriamo che Les Philosophes, come il resto delle produzioni passate di Nadj è arrivato in Italia con un ritardo di tre anni e che come gli altri suoi lavori è destinato a poche, pochissime date. Anche in questo, dunque, il Nostro rientra nel club degli esponenti più alti della scena internazionale (dicevamo qualche settimana fa delle due piazze di Vassiliev in due anni). Dal paradosso italiano sembra sempre più facile trarre empiricamente leggi di principio.


L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -