Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Ripartire dal pubblico  
Nella crisi dei centri di ricerca trionfa Sfide personali al Kismet OperA di Bari.      
di Gian Maria Tosatti      

Oggi l'Italia è attraversata da una crisi culturale diversa da quelle degli anni passati. Molte infrastrutture che in passato hanno resistito agli attacchi politici facendo muro e conservando una propria autonomia rischiano di capitolare. Gli enti pubblici vengono riformati e la situazione di alcuni centri di ricerca è grave dal punto di vista economico. Alcuni direttori vacillano per la mancanza di appoggio istituzionale, altri sono sul punto di cadere. Per certi versi siamo di fronte ad una crisi seria, una di quelle crisi che danno la sveglia ad un sistema che forse ha fatto i suoi conti con troppa leggerezza, quand'anche sul piano artistico abbia prodotto percorsi di valore. Questa infermità economica del teatro rende vulnerabili quelle strutture che hanno conservato in questi anni una certa autonomia, o le costringe a nascondersi in attesa che le fratture siano sanate, e di rimando si trasmette agli artisti che trovano con sempre maggiore difficoltà interlocutori in grado di realizzare i propri progetti, rischiando la paralisi di un'intera generazione.

Ma riflettendo sui dati raccolti nei viaggi alla ricerca di un teatro possibile, chi scrive, deve pur fare i conti con i segnali positivi che si mostrano evidenti e in certi casi fino ad essere coinvolgenti.

Così a Bari, destinazione Teatro Kismet OperA, Stabile d'Innovazione che in questo periodo attraversa una fase delicata della propria storia. Per tre giorni si è svolta la seconda edizione di un piccolo festival denominato Sfide personali. Ne parlavamo la scorsa settimana notandone la chiarezza degli obiettivi. Chiarezza a cui il pubblico ha risposto in modo esaltante, riempiendo il teatro ogni sera e affollando le liste d'attesa finendo spesso per restar fuori.

E' questo un segnale importante. Il pubblico non ha abbandonato il teatro ed è in grado di dialogare, (di AIUTARE?), di vivere l'assemblea quando questa ha un reale interesse a farsi capire.

Un altro segnale importante è quello che viene dal lavoro che questo festival ha operato sul territorio, portando al debutto tre gruppi con i quali da tempo si è sviluppata una collaborazione.

Uno di questi è Teatro Minimo, che ha presentato Murgia, ultima creazione della compagnia retta dal giovane tandem Sinisi-Santeramo. Un lavoro che, come i precedenti, gioca sul talento attoriale di Michele Sinisi, e sulla sua rapidità nel gestire i ritmi narrativi, ma che presenta alcune debolezze a livello drammaturgico, che potrebbero ricondursi ai tentativi fatti da una compagnia alla ricerca della propria forma narrativa originale.

Discorso diverso per quella che è stata la vera rivelazione di Sfide personali, cioè il Piaccainocchio di Roberto Corradino. Un lavoro che dimostra davvero il senso di una sfida nel proporsi come la coraggiosa esposizione di un conflitto esistenziale con i valori di un paradigma generico di coniugazione morale dell'uomo. L'iter drammaturgico, costruito attraverso una attentissima, minuziosa, quasi perfetta partitura che rielabora il Pinocchio collodiano facendone impianto metaforico per innesti nietziescheiani o pasoliniani, coincide con l'evoluzione (impossibile) della coscienza del personaggio, col suo tentate e ritentate, insistere ostinatamente fino a cambiare (o a perdere?) la propria identità e la propria appartenenza. Questo percorso stentato è seguito con estrema precisione ritmica dalla scrittura. Corradino intreccia una tessitura poetica che svolge il suo corso logico per richiami continui, slanci con cui il protagonista tenta di intrappolare l'evanescente corpo di quei valori perversi che impongono la sottomissione al loro inconcepibile emblema nominale.

Anche sul piano tecnico dell'allestimento Piaccainocchio si dimostra all'altezza della propria sfida etica, rileggendo, facendo propria, la lezione di maestri come Carmelo Bene o come Artaud. E se il debutto porta ancora qualche particolare da registrare, il silenzio che si è fatto in sala durante l'esecuzione ha dato la cifra di un lavoro che tiene davvero sospeso lo spettatore per la sua necessità di esserci, lì, umanamente, in quell'esatto momento, sulla scena, presente, davanti agli altri, per dire la cosa che ammutolisce, per fare del teatro vero. Debutto è stato anche per Soliloquy, della compagnia Res Extensa, formata dalla danzatrice e coreografa barese Elisa Barrucchieri e dalla sua collega norvegese Victoria Sogn. Un lavoro particolarmente interessante perché presentato in un momento focale della sua evoluzione. C'è infatti un tempo, durante lo sviluppo di uno spettacolo, in cui quello che è indotto diventa naturale e contemporaneamente cambia la sua natura "didascalica" per diventare lezione nel corpo, somatica, per sostituire comunicazione a trasmissione, espressione a trasparenza. E' qualcosa che non accade sempre, specie in un teatro che riduce al minimo i suoi tempi di ricerca (cosa che però nella danza si verifica più raramente). Quando accade però il significato logico cede il posto al significante esistente. Così si genera il valore della bellezza, di qualcosa che non dice, ma s'espone, cambia lo sguardo senza spiegarsi.

In questo senso Soliloquy è una bellezza adolescente, una forma non ancora perfetta, soggetta a cali biologici in alcune sue parti, alla resistenza di schemi di formazione. Pure questo suo cogliersi in un momento critico di mutazione dà la possibilità allo spettatore di sedere sul crinale di questa fondamentale differenza di stato, in attesa che i residui di drammaturgia si spoglino fino ad integrarsi nel corpo organico del lavoro.

Leonardo Capuano è stato presente con Due e Zero spaccato, lavoro quest'ultimo giunto ad un alto livello di maturità. In esso non c'è una storia, perché manca il soggetto, è morto. E' il dato di partenza. E' l'assunto di base. Zero spaccato è il movimento della memoria nel suo disperdersi, nel suo sciogliersi nell'aria una volta privata delle proprie stanze corporee.

Così la linea drammaturgica sarà costretta a negare un vero principio organizzativo. Ma ritornati o ritornanti progressivamente ad una autonomia originaria, quei ricordi, li si vedrà quasi disciplinati in una danza a sei passi. Una drammaturgia, dunque, che si sottrae ad una pianalità narrativa, e che pure si struttura su una ritmica precisa e curata nei suoi scarti minimi, ad evocare il dinamismo di una dispersione.

Ad attraversare questa ascensione di ossigeno, di ossigeno, in fondo, come simbolo della vita, così densa da farci intravedere contorni, sentire voci, sono immagini quasi svincolate da ogni nesso relazionale. Uomini e donne di cui non potremmo mai conoscere nulla, immagini registrate quasi con la coda dell'occhio, ma rimaste somaticamente imprigionate in una memoria in disarmo. Sono passaggi incrociati da tempi diversi, luoghi lontani, mai riconoscibili. Sono echi che rimbalzano uno contro l'altro, si scontrano e si caricano. Ma il soggetto di questo lavoro non è specificato ed allora sembra lecito identificarlo nel suo autore, vivo e giovane (a dispetto della capigliatura brizzolata). Tuttavia la direzione resta la stessa. Capuano si confronta qui con l'esigenza di un'apnea amniotica nelle proprie reiterazioni, nei virus ossessivi della propria esposizione al reale, nella necessità di debellare quella spamming-memory, esorcizzarla, liberarsene dandosi per morto e ripetere quel respiro postumo che scarica il potenziale elettrostatico accumulato nelle giornate rapide a fischiare ad un pelo dalle nostre teste. Zero spaccato è così il funerale che si fa a sé stessi, alle zavorre della propria esistenza, l'azione che testimonia di poter ancora riazzerare la propria compromissione.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -