Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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I negri  
Tre esempi cronologicamente determinati per rispondere contro l'arte amministrata.      
di Gian Maria Tosatti      

Circa mezzo secolo fa, Theodor W. Adorno, uno degli antenati spirituali di questa rivista, disegnava il profilo dell'artista contemporaneo nei tratti di un barbone, di un mendicante, di un vagabondo. E a tornarci oggi i toni paiono ancor più foschi tenendo conto del sostanziale equilibrio con cui il filosofo francofortese ha condotto la propria critica estetica.

Dopo cinquant'anni alcune di quelle pagine paiono redatte non più tardi di qualche sera fa, all'uscita di un teatro o dopo qualche avvilente riunione di non meglio precisati intellettuali italiani. La differenza è che al giorno d'oggi non si ha notizia di scritti simili e se pur fossero stesi, in un caso particolare, non troverebbero da scontrarsi, com'era allora, con altre analisi critiche ancora più radicali (mi viene da pensare a Benjamin o specialmente a Marcuse) e altrettanto pericolose per la loro chiarezza. A parte la produzione filosofico-sociologica a riguardo, tuttavia, la situazione su cui rifletteva Adorno nella sua critica all'arte amministrata non pare cambiata, solo essa è divenuta sistema. Solo ha sviluppato una gerarchia di generazioni nate già dentro il sistema e orientatevisi all'interno. Chi scrive fa parte di queste generazioni, chi legge, probabilmente, anche.

Questi cinquant'anni hanno dunque permesso che l'organismo di un sistema indicato nel consumismo culturale, sviluppasse le proprie logiche spaziali-vitali e i propri necessari meccanismi di difesa.

In un parallelo particolarmente coerente con un'altra attualità, oggi potremmo sostituire quella figura di clochard, cui faceva riferimento Adorno, e che corrisponde a quella dell'artista puro, senza un posto sociale definito, svincolato dalle logiche dell'arte come prodotto di consumo, con quella di un extracomunitario. Entrambi sono oggi schedati, schedati come stranieri, perché tale è l'arte, sempre. Non gli viene data cittadinanza e anche se la legge glieli riconosce, di fatto essi sono privati di una serie di diritti. Perdonerà il buon antenato questa grossolana attualizzazione del suo identikit, ma tale riflessione mi è stata suggerita in questi giorni da Claudia Castellucci, componente della Societas Raffaello Sanzio e scolarca della Stoa, la scuola di danza e filosofia per bambini che il gruppo di Cesena ha iniziato da due anni (dopo le importanti passate esperienze sempre in campo "formativo"). Prima della dimostrazione di lavoro fatta dai bambini, una piccola nota ricordava la vicenda del cretese Zenone, giunto ad Atene per apprendere la filosofia e costretto, una volta divenuto saggio, ad incontrare i propri discepoli sotto un portico, per il divieto impostogli in quanto straniero ad aprire una scuola. "Stoa" ha, in greco, appunto il significato di "portico" e non è dunque un caso che la scuola dei Raffaello Sanzio rivendichi con tale nome la sua condizione straniera di fatto, nel costruire un percorso infantile sulle assi della danza e della filosofia.

Iniziare un discorso a partire dal perché della Stoa ci porterebbe lontano, probabilmente a mettere in discussione molti concetti dati in buona quiete per acquisiti, ma soprattutto a porci avidamente una domanda, cioè: Cos'è la Societas Raffaello Sanzio e quale è la dialettica che questo gruppo di artisti sviluppa con la società?

Lasciamo questa domanda alla cura del lettore, perché quel che davvero ci interessa in questa occasione è reperire plausibili risposte agli appelli sollevati nella "Lettera semi-aperta" che qualche settimana fa abbiamo pubblicato (vedi in archivio editoriali) e che dimostrino l'esistenza di realtà vive perché libere dalla logica di arte come prodotto di consumo o come proposta determinata. Lo facciamo con tre esempi riscontrati a tre giorni di distanza nella settimana appena trascorsa e in tre differenti città.

Abbiamo cominciato con i Raffaello Sanzio a Cesena, cui abbiamo fatto visita venerdì. Sabato è stata la volta di Lenz Rifrazioni, a Parma.

Come per i primi non ci occuperemo della specifica storia dei gruppi, che di per sé potrebbe risolvere la nostra discussione, ma appunto ridurremo il campo a singole iniziative. Lenz Hotel è l'esperimento del gruppo parmense diretto da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nel cui spazio si arriva verso le 22, si discute, ci si sdraia su cuscini, si beve, si ascolta musica, si assiste a qualcosa di non precisato e si resta finché c'è voglia di restare. Alto il livello della sua organizzazione e per quel di cui è stato testimone chi scrive, si potrebbe anche parlare a lungo di una performance intitolata Fabrica Negra in cui Francesco Pititto ha costruito uno spazio poetico elementale di straordinaria forza per il corpo solo di Sandra Soncini, a partire dalle parole di Juan de la Cruz. Tuttavia non volendo deviare troppo dal ragionamento principale ci si dovrà chiedere retoricamente che tipo di "prodotto teatrale" sia questo Lenz Hotel, cosa venda allo spettatore, quale sia la sua ragione e soprattutto che tipo di albergo sia. L'unica risposta che non lasceremo al lettore è quella all'ultimo interrogativo. Lenz Hotel è un "albergo di mendicità". E' un centro di accoglienza autogestito per "profughi", per "stranieri". Cosa vi accada e perché non è possibile da prevedere.

In ultimo accludiamo una realtà minore, di quelle che sono care alla nostra linea editoriale. Uno di quei piccoli gruppi che a Roma lavora incessantemente nella fabbrica dei miracoli. Tra le macerie di una ex scuola, alla fine di un corridoio affacciato su aule distrutte, un tempo occupate appunto a scopo abitativo da extracomunitari, tredici ragazzi hanno costruito un teatro, un teatro vero, non solo per rappresentare, ma prima di tutto per incontrarsi. In questo luogo, che abbiamo visitato giovedì, gli è stato possibile condurre un progetto centrato sul tema della guerra assieme ad una compagnia di coetanei messicani. Pax (questo il titolo della performance) è il risultato acerbo di questo connubio tra Residui Teatro e Cartaphilus Teatro. Pax è il risultato provvisorio di questa collaborazione che mira a svilupparsi. Quello che resta è un teatro, allestito con le proprie mani, per incontrarsi, allestito dai mendicanti, i barboni che menziona Adorno, in un luogo abbandonato dalla migrazione di altri vagabondi.
Con la progrediente organizzazione di tutte le sfere culturali cresce l'appetito ad assegnare all'arte il suo posto nella società, teoreticamente e certo anche praticamente; innumerevoli tavole rotonde e simposi sono intenti all'opera.
(T.W.Adorno - "Contro l'arte amministrata" in "Teoria Estetica").

Una risposta arrivataci alla "Lettera-semi aperta" proponeva una visione dell'attuale sistema teatrale come di "una caotica, transitoria, aggregazione fuori controllo, che ci vorrebbero astronomi e teologi per indagare". Viene da rispondere che ciò è assolutamente vero. Pure questo caos non smette di organizzarsi e organizzare simposi e tavole rotonde che appunto, forse, in innumerevoli luoghi, stanno sbagliando tutto.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -