Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Metafora della mancanza  
Amleto ovvero cara mammina di Scena Verticale, un lavoro sulla dipendenza dalla devianza.      
di ian Maria Tosatti      

ROMA - Un pupazzo che suona e balla su un pavimento pieno di giocattoli sparsi... Una stanza infantile su cui si muove un uomo palesemente adulto, ma vestito in abiti fanciulleschi. Pantaloncini corti e maglioncino rosa. E una bella riga da una parte. Si aggira e apre la finestra ai suoi tre amici invisibili. Discute, ricorda, dubita, vacilla. Non si risolve. Dove va a parare?

Amleto ovvero cara mammina è un opera che vidi molto tempo fa in forma di studio e che oggi ritrovo, al Teatro Furio Camillo, terminata e con una discreta storia di repliche alle spalle. Cerco di ricollegare le due versioni, di recuperare dalla memoria il primo embrione e in parte ci riesco.

Quello che è accaduto è che Amleto ovvero cara mammina s'è liberato dalla zavorra shakespeariana, di quei collegamenti che facevano fare il giro lungo allo spettatore. Quello che è accaduto è che "Amleto" è diventato "Cara mammina". E non poteva essere che così. E' accaduto qualcosa di cui Scena Verticale, la compagnia che firma lo spettacolo, s'è resa conto benissimo, cioè che è diventato impossibile riesumare l'eroe tragico moderno (non parliamo poi di quello antico) e che dunque quell'eroe non doveva esattamente sparire, ma diventare un riferimento così lontano da essere quasi sconosciuto a se stessi. In una generazione priva di eredità, cresciuta all'apparenza così igienicamente priva di ombre e di tabù, di zone oscure, di ignoranza , l'unico piano su cui si poteva portare il discorso di una impossibile maturità era quello dell'assoluta immemorialità. Di fronte a noi sta dunque un personaggio totalmente al presente. Un personaggio che ha una storia che, appunto, si scolora col passare del tempo e che si arrende giorno dopo giorno, un personaggio che non ha né memoria prenatale, né ascendenze. L'adulto bambino che sta stretto fino a scoppiare nelle sue scarpine, nel suo accappatoietto e in tutte le manifestazioni che meritano diminutivi che gli stanno attorno è un personaggio che collega i fenomeni che gli accadono, che li confronta con un sistema di valori chiaro, che è provvisto di un ipotetico orientamento. Insomma è un personaggio che possiede una mappa in cui è segnata la linea di demarcazione tra il bene e il male. Il problema è che quella mappa non coincide.

Amleto ovvero cara mammina è uno spettacolo sugli sfasamenti. E' un lavoro sulle zone d'ombra che si presentano senza che se ne sospetti l'esistenza, è un lavoro sugli agguati del non detto in una società in cui tutto sembra sia stato detto. Saverio Laruina, coi suoi abitini, si muove su un terreno molto delicato, quello della propria dipendenza dalla devianza, della propria invalidità come "individuo", della comune debolezza patologica. Per poterlo fare era necessario negare l'eroe tragico dunque, ma non negare Amleto, l'antenato lontano, l'antenato ormai irriconoscibile, come il primo morto di un epidemia che oggi ha coperto l'Occidente come una coltre bianca. L'eroe shakespeariano resta allora confinato nel titolo, al "posto suo". In scena c'è un essere anonimo, un carattere che ci somiglia, che ci fa sorridere, ma mica tanto.

In un impianto semplice Laruina restituisce a questo personaggio una buona ritmica, una oscillazione tonale che gioca con l'attenzione del pubblico tenendola avvinta senza strappi per tutta la durata del lavoro. A queste condizioni si sviluppa una serie di casi, di ipotesi di vita, di metafore esistenziali in cui è possibile riconoscersi, riconoscere la propria menomazione edipica, la propria inaffrontabile mancanza...

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -