Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Segni attraverso le fiamme  
Studio per Attis, della compagnia Habillé d'eau, come espressione originaria di teatro.      
di Gian Maria Tosatti      

"Et s'il est encore quelque chose d'infernal et de véritablement maudit dans ce temps, c'est des attarder artistiquement sur des formes, au lieu d'être comme des suppliciés que l'on brûle et qui font des signes sur leurs bûchers"* Antonin Artaud
Silenzio. E timpani sul punto di sfondarsi, tremare, tendersi nell'onda d'urto del silenzio. Silenzio retto da una sfinge-diapason, centro d'emanazione e fuga prospettica di questo spazio del non so, della rivelazione terribile. Del non lo posso sopportare. Del capovolgimento e della lama. Del disumano con la coda. Del posto in cui ci si sente soli e sotto tiro, dell'agguato che non riesci a cacciare dalla pelle. Del collasso del pensiero lineare, degli ordini platonici. Dove agiscono le forme in fondo alla gola. Così ci si sente precipitati in un rito segretamente, che si consuma sulla ritmica del sogno, con le sue disparità di pesi tra la rarefazione percettiva dell'io paralizzato e la rapidità dei carcerieri di uno spazio comunque mistico, situato al centro di ogni frattura assordante, dell'imminenza insopportabile di una germogliazione, lacerante, da fisicità fragilissime, sul punto di rompersi, di prosciugarsi, sul punto di spuntare di rami dalle loro fessure, e strapparli, bucarli con emorragia. E intorno gran girare di insetti come roboante asse di stabilità per un sistema di spazi agenti sulle reazioni del loro punto limite.

E in questa forma Studio per Attis della compagnia Habillé d'eau è una grande evocazione. E' qualcosa che vuol farsi accadere e accade, retto da necessità dionisiaca e disciplinato dalla rigorosa metrica greca di un'epica teatrale originaria. Un'epica che par nascere dall'imitazione spontanea degli archetipi di riferimento, tangenti al piano dello spettacolo, che li accarezza, li sfiora in controluce. Si cala nel buio che li seppellisce, fino a sentirne la carne, fino a stabilire con loro un rapporto tattile, basato su tocchi leggerissimi e sulle vibrazioni, le reazioni in essi suscitate.

E' qualcosa di radicalmente crudele e al pari ardentemente umano, che dev'essere portato via di peso dalla scena lasciando dietro di sé grande boato di passaggio. Come anelito di radice lanciata verso il cielo, di albero, sì, come freccia nella sospensione del suo tronco spezzato, decapitato, scisso, e doppiamente fecondo di figura umana nella dignità naturale del suo sbigottimento, in tutto il suo non so, il non so della sua preghiera.

Questa la descrizione di un lavoro che all'attenzione del pubblico di Enzimi ha imposto la giovane compagnia di Silvia Rampelli, già conscia di un preciso orientamento di estetica e di poetica.

Nell'analizzare Studio per Attis vien subito da notare come esso non sia uno spettacolo a credito, uno spettacolo basato sul solito debito di fiducia contratto con lo spettatore. Questa processione formale infatti non vuol essere simbolica, non vuol alludere a qualcosa, mediare rispetto ad un altrove, sforzarsi di significare qualcosa che sia oltre se stesso. In esso non c'è descrizione, ma, propriamente, mimesi. (Ciò va inteso non già in senso platonico, quanto profondamente aristotelico. Mimesi dunque non come immagine riflessa, ma come movimento rigenerato.)

Qui sta il dato veramente significativo del lavoro, cioè nella riconquista del campo teatrale. Nella riappropriazione della valenza originaria di uno spettacolo, che distingue tra il "recitare qualcosa che accade" e "l'accadere". In questa differenza sta uno scalino determinante: il momento in cui agisce il linguaggio nella dialettica performance-spettatore. Nel teatro occidentale infatti esso si manifesta nel momento assembleare, come punto di mediazione tra l'anelito creativo della compagnia e la fantasia dello spettatore in cui esso si compie, relegando alla sfera mentale (determinandone la sterilità) il processo catartico. In Attis il linguaggio agisce prima, come insieme di strumenti tecnici di estrema precisione che vengono attivati dalle attrici-danzatrici durante la preparazione, come pazienza nel pulire ognuna le corde più nascoste del proprio strumento, per arrivare al pubblico non con i fogli della partitura stesi sul palcoscenico come un codici da leggere, ma nel momento in cui l'armonia è già divenuta pura emozione, movimento, vita nel corpo del performer.

Con quest'ordine la dialettica tra gli officianti e i partecipanti al rito teatrale sarà retta, nel momento assembleare, non dall'esposizione del linguaggio, ma dal passaggio ulteriore che può essere definito come "processo d'induzione", in cui è l'energia a venir trasmessa per vicinanza da un corpo all'altro. Da uno carico (il performer) ad uno scarico (lo spettatore). Ed è possibile rendersi conto, assistendo ad Attis, come nella differenza di potenziale fra comunicazione e trasmissione stia il segreto della catarsi e della pericolosità del teatro.

E allora si può riprendere la frase celebre di Artaud messa in epigrafe. E la si riprenderà dall'inizio appunto per fornire un paradigma che sia in grado di ordinare con il linguaggio visionario e illuminante di "Antonin le fou" la differenza di cui s'è detto, cioè tra un teatro attardato artisticamente su forme in fine chiuse in un sistema di specchi che riflettono sé stessi e ciò che accade quando l'attore si fa bruciare e dall'esperienza-cosciente del suo rogo invia segni, cenni a quelli che stanno al di là dello spazio sacro della scena. In questo senso dunque chi scrive si permette di parlare di riappropriazione del campo originario, dell'esatto rapporto temporale tra l'evento e la percezione. E non è sbagliato trovare in Artaud l'anello di congiunzione tradizionale che unisce il lavoro di Silvia Rampelli al teatro classico e pre-classico, inserirla, con tutta la strada che le si para ancora innanzi, attraverso Artaud, nella linea ereditaria del teatro, di quello vero.

Indipendentemente dunque dal singolo risultato di questo o quel lavoro, che sia Studio per Attis (che pure paga qualcosa ad una strutturalità in quadri ancora convenzionale) o l'imminente Refettorio, il dato significativo che qui ci preme annotare, il valore da sottoporre al lettore, è il transito di Habillé d'eau in quel campo originario, nel campo in cui il teatro trascende se stesso e diventa azione, il campo in cui il teatro non c'entra niente e diventa accadere di qualcosa di pericoloso.

* "E se c'è qualcosa d'infernale e di veramente maledetto in questo nostro tempo, è attardarsi artisticamente su forme, invece d'essere come dei suppliziati che vengono bruciati e che fanno segni attraverso le fiamme".

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -