Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Bilancio preventivo per una trilogia in quattro anni  
A 'Enzimi' l'anteprima di Z, ultimo lavoro del coreografo Francesco Scavetta.      
di Gian Maria Tosatti      

ROMA - In una forma ancora non completamente fissata Francesco Scavetta ha presentato in anteprima assoluta per Enzimi il suo ultimo lavoro, il cui debutto definitivo è previsto per febbraio in Norvegia (paese in cui da qualche anno il coreografo salernitano ex-Sosta Palmizi ha stabilito la sua sede fondando la compagnia Wee).

Non è dunque possibile tracciare un'analisi in merito ad un'opera non finita che sia veramente calzante, per il rischio di venire smentiti dalla prova del giorno dopo, ma della performance che ha entusiasmato il pubblico della manifestazione romana si dirà quello che appare come un dato di fatto acquisito, cioè che essa ha ribadito i caratteri specifici di un percorso poetico assai chiaro ed estremamente interessante.

Z, questo il nome del lavoro, arriva come ultimo passaggio di una trilogia sviluppatasi in base ad una ricerca drammaturgica precisa, cui si sono necessariamente subordinate sperimentazioni tecniche legate ai linguaggi utilizzati. Dopo questi quattro anni e tre spettacoli prodotti (prima di questo A sudden unexpected faint e Live), infatti, ad apparire chiara è l'acquisizione di una base tecnica di grande valore (si sarebbe tentati di dire eccellente rispetto al panorama italiano) capace di sostenere il delicatissimo lavoro sulla narrazione, che in Z sviluppa una moltitudine di livelli, fino a rischiare l'overload. In questo senso, al centro di questa trilogia è certamente un rigoroso lavoro sul video e sull'integrazione di tale linguaggio con quello delle performing arts.

Se tuttavia questo piano si era presentato ben risolto già nella prima opera, Scavetta non ha smesso di rilanciare su di esso come in una giocoleria che aumenta il numero delle sue palline volanti e che infine si compie durante l'attraversamento funambolico di uno spazio vuoto.

E proprio lo spazio vuoto è uno dei fuochi centrali di Z, che rispetto agli altri lavori nega la possibilità allo spettatore di identificare con certezza le figure (pur paradossalmente e provocatoriamente note) che vengono introdotte nello spazio, siano esse uomini o cose. Si viene messi in grado solo di poterne discernere i contorni, le sagome intorno al buio traslante che ne invade i corpi. Corpi che sono al contempo presenze e buchi (assenze) del campo visivo. In questo senso si perde completamente il discernimento tra essere e non essere, esserci e non esserci, lasciando il coreografo libero di giocare con le immagini sovrapposte di personaggi fuori scena a danzare con le figure fisicamente in pedana. Tutto si gioca su una tessitura di spazi fisici e metafisici che i performers attraversano con estrema naturalezza, senza far sentire le svolte critiche dei cambi di ritmo, introducendo nel loro danzare la temporalità del sogno, fondamento della linea drammaturgica.

Questa, proseguendo le precedenti indagini, continua ad analizzare e dilatare lo spazio incerto che sta tra presente e passato. Ad una dialettica abituale tra un prima e un poi strettamente determinati, e dunque costretti in una specifica misura spazio-temporale in grado di produrre un solo risultato di sintesi, Scavetta sostituisce un sistema pluri-combinativo. Per farlo, dimostrando l'errore d'impostazione di una tipica convenzione rappresentativa deterministica, egli cambia i piani rendendo relativa la percezione dell'impianto narrativo. Immerso in una laguna mnemonica, in cui spazio e tempo sono fusi in un unico liquido argentato simile al mercurio, un sottile tessuto di memorie affioranti agisce come serie di input direttamente sull'immaginario dello spettatore. In questo modo il materiale elaborabile si sottomette prima ancora che alle leggi della comprensione, a quelle della fluttuazione onirica, stabilendo una dialettica, differente da quella tipica del pensiero discorsivo.

E' qui che il fattore video si fa determinante, identificandosi come seconda prospettiva di coscienza dell'organismo sognante, la cui meccanica è ora completamente riprodotta in scena. La scissione tra coscienza fisica di sé e dimensione dissociativa che domina lo stato del sogno è il passaggio chiave di questo lavoro, il passaggio che provoca il brivido nello spettatore. La realtà delle riprese in diretta non coincide, infatti, con quella dello spazio performativo. Anche se sono sostanzialmente le stesse cose esse vengono filtrate da un simulato processo cognitivo che ne altera i significati riproducendole caricate di altre valenze. Ciò trasforma il rapporto tra i due presenti (quello in video e quello live), che in A sudden unexpected faint poteva essere reso con un'identità algebrica, in un'equazione complessa in cui la variabile non può essere identificata in una sola quantità. In questo senso si può dire che la geometria di Z vada calcolata in un sistema più complesso di quello cartesiano e soggetto a leggi incostanti.

In questo panorama bisogna però fare i conti con leggi altrettanto ferree di quelle matematiche, cioè quelle della scena, che richiedono ancora al lavoro una definitiva mappa ritmica e un calcolo preciso dei sovraccarichi sintattici prodotti dal sovraffollamento di proposizioni principali nel discorso drammaturgico. Il rischio che si corre è quello di far perdere allo spettatore il contatto con la propria linea associativa determinandone la "sveglia" e un conseguente stress da reinserimento.

Tuttavia il percorso è ancora lungo e c'è d'aspettarsi che entro febbraio i problemi vengano risolti, così come sciolti potrebbero essere i dubbi sulle disparità di sguardo tra lo spettatore maschile e quello femminile.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -