Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Ma quale la sfida?  
Interrogativi scomposti sull'ultimo debutto di Luca Ronconi (per la cronaca Peccato che fosse puttana di John Ford).
Parma, Teatro Farnese. Fino all'8 luglio.
     
di Gian Maria Tosatti      

PARMA - Varcare le porte del Teatro Farnese di Parma è già di per sé un'esperienza che pochi spettacoli saprebbero rendere così intensa. Un rapimento che può tenere stretto alla gola lo spettatore per un tempo lunghissimo, fin quasi alla dimenticanza di sé, alla vertigine.

Dimenticarsi, sì, dimenticarsi. Ma per il debutto di Peccato che fosse puttana! di John Ford, Luca Ronconi sembra dimenticarsi del Teatro Farnese.

Sembrerebbe un'affermazione paradossale qualora si tenga conto di una scenografia in perfetto accordo cromatico e stilistico con le strutture lignee e coi fregi della prestigiosa sala, e tanto più lo sembrerebbe tenendo conto anche dei cambi di luce giocati quasi tutti sulle pareti e le profondità della scena "naturale".

Ma in realtà, a ben vedere, questi particolari costituiscono prove a carico per una sorta di imputazione che avrebbe per oggetto la violazione di domicilio.

Il regista, infatti, non nasconde una certa centralità di riferimenti, nel suo lavoro, all'accordo spaziale con il teatro, in cui e per cui (è bene ricordarlo) lo spettacolo è stato realizzato. Tuttavia egli sembra non misurare le resistenze dello spazio in maniera attiva. In sintesi quello che lo spettacolo fa è mimetizzarsi, non sviluppare un rapporto dialettico col Farnese. Sceglie di non fare davvero i conti con uno spazio che pretende il confronto, sceglie di sottrarsi, ma è un'opzione impossibile. Ronconi mette la composizione al centro dello spazio, nel luogo principe della rappresentazione, ma la integra, la confonde nella sala quasi ad imporgli di non disturbare, di non stonare, di non svegliare il gigante che dorme, con atteggiamento da imbucato discreto che ad una festa non sua cerca di non essere scoperto. (Ma la festa dovrebbe essere quella di Ronconi con tutti gli oneri ed onori che ciò comporta!).

Il Farnese non perdona questa mancanza di rispetto, questo agire nel sonno senza guadagnarsi con lo scontro e con una vittoria la sua resa. Non può farlo, specialmente tenendo conto di quelle aggravanti di cui sopra.

La vendetta del Farnese si fa sentire subito nello spettatore sensibile e nel suo giustificato disagio di trovarsi destinato alla parte del voyeur un po' morboso davanti ad un gruppo di "nanetti" intenti a solleticare con una piuma (il testo di Ford) il naso del gigante addormentato.

Chi scrive si scusa per l'irriverenza di quest'immagine, che ha più i tratti di un gioco da bambini, rischio di portata infantile, che di un mestiere, arte e passione d'adulti, ma essa pare sincera rispetto a quanto visto e funzionale alla costruzione di un preambolo che introduca la critica ad un atteggiamento ronconiano che va oltre la singola opera. Prima di centrare il problema è importante notare che questo spettacolo appare per più di un aspetto fin troppo simile agli ultimi lavori del regista tratti da testi del Seicento. Il problema sembra, dunque, la mancanza di incidenza, di posizioni attive, di necessità. Da una parte la maniera discreta di ricamare misurati e pregevoli adorni su uno spazio che non si vuol correre il rischio di svegliare (per non imbattersi nell'impresa di doverlo domare), dall'altra, l'aver stabilito una cifra per cui il pubblico possa finire per vedere tre spettacoli perfettamente uguali in capo ad un paio d'anni e pure al contempo assai ben orchestrati, disegnati e composti (e ci mancherebbe altro!).

Ad emergere in questo quadro è la volontà di agire cercando di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Ma Ronconi sa bene che è l'esatto opposto a costituire una legge assoluta del Teatro. Per cui ad imporsi è una domanda sul perché di questo lavoro che palesemente evita tutti i rischi. Quale la sfida di questo spettacolo? Quale la sfida vera?

Si esce dopo circa tre ore da un opera costruita con capacità, pulizia, ottime geometrie e qualche virtuosismo d'attore, ma non è in dubbio che Ronconi sia in grado di fare un buono spettacolo. E' proprio per questo che farlo non basta. Non basta perché ciò non costituisce alcun passo avanti. Ed è scritto che in Teatro non esiste la stasi, esiste solo l'evoluzione o l'involuzione.


L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -