Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 35
Dal 06/05/2024
al 13/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Per mettere un punto: La “Trilogia della Rivolta”  
Ragionamento Semio-logico su una trilogia involontaria del Teatro Valdoca.      
di Gian Maria Tosatti      

Era cominciata nel 2000 con Chioma. Proseguita nel 2001 con Predica ai pesci e ora si è conclusa con Imparare è anche bruciare.
Tre opere stilisticamente diverse e figlie di processi di lavoro assolutamente dissimili. Un monologo la prima, dal testo forse più bello di Mariangela Gualtieri. Una composizione per voce, canto e acrobatica, la seconda. Un rito, a conclusione di un percorso di formazione professionale, la terza.
Soprattutto, nessuna volontà da parte della compagnia di fare una trilogia.
Eppure tra queste opere è evidente lo svilupparsi una relazione strettissima, fatta di rimandi, rifrazioni e echi trasmessi attraverso un discorso profondamente unitario che connota lo sforzo artistico di Valdoca in seno ad un purissimo teatro politico di cui la compagnia dà esempio tra i più alti di questi anni (decenni).
Per questi motivi chi scrive si assume la responsabilità di parlare di questo percorso triennale della Valdoca come di un movimento coerente ed organico. E in questi termini se ne dirà di seguto nominandola Trilogia della Rivolta.

UN ALTRO ASCOLTO.

Nella Trilogia della Rivolta Cesare Ronconi compie una scommessa cosciente e radicale. Ovvero quella di spingere fino in fondo, alle estreme conseguenze, l’evoluzione alchemica dei suoi elementi. E facendolo si dimentica (volutamente?) di rientrare dentro i consunti margini abituali della proposta spettacolare attuale. Per ognuna di queste opere Ronconi ha bisogno di un teatro diverso. Un teatro in cui reimpostare di volta in volta la relazione con la propria assemblea. Non c’è racconto. E in due casi non c’è neppure rappresentazione.
Per il pubblico odierno, che né si pensa e né si depensa, accontentandosi di acquistare la conoscenza fuori da sé, il passaggio è ostico. Per i critici che talvolta hanno la pretesa di giudicare anche quando non hanno capito, è un bell’inciampo.
Chioma coi suoi brandelli di parole luminescenti, potente come il miracolo dell’agonia di un cane di strada che inchioda la rotazione del mondo, è un’azione per testimoni. E’ la rappresentazione di una confessione che per essere tale ha bisogno di qualcuno che la raccolga.
Predica ai pesci, è poi uno dei più alti esempi di teatro politico di questi anni col suo ostinato nominare il bene, il nome degli angeli e dei grandi fiumi, delle arterie che nonostante tutto continuano a scorrere, dicendo la vita, la vita che si contrappone alla morte. Scegliendo di dire solo la vita, come un rosario. Senza rappresentare niente. Solo invitando alla preghiera, alla declinazione delle gerarchie celesti e terrestri. Predica ai Pesci è una preghiera che non si sazia di sé, che ha bisogno ancora di acqua e di cielo. Talvolta mi è capitato di sentir dire che dopo un quarto d’ora Predica ai pesci si è bell’e capito e dopo ci si stufa, ma dei vespri in chiesa questa cosa non l’ho sentita dire mai. E’ tutta una questione di aspettative. E il Teatro allo spettatore chiede solo di essere nel presente, di stare.
Lo stesso ho sentito dire talvolta di Imparare è anche bruciare. “La struttura si capisce subito, io lo farei durare mezz’ora di meno”. Ma secondo quale paradigma di tempo? Imparare è una funzione rituale. La sua struttura la si deve declinare tutta. Il suo valore sta nel parteciparne l’interezza. Nel suo compiersi di rito. Di Imparare non si può tagliare niente perché la sua non è una struttura spettacolare, ma un sacrificio e un esorcismo. E’ un’azione per cui non esistono perifrasi più brevi o più concise.
Così sono queste le prime tracce parentali che fanno di queste opere una trilogia, ovvero il loro chiaro riferimento strutturale al rito e al rito religioso. La via crucis di Chioma, coi monologhi-stazione che l’avvitano fino alla cima del suo Golgota interiore. Il rosario vespertino di Predica e l’autoesorcismo di Imparare. E di conseguenza la traslazione dell’assemblea nei luoghi propri di tali offici.

(CON)SEQUENZA

Ho sempre cercato di spiegarmi questa trilogia anomala, perché involontaria, come una sorta di (con)sequenza di ingrandimenti al miscroscopio.
Chioma è l’ingrandimento utopico, massimo. In cui si arriva a poter vedere il principio di divinità ch’è tessuto comune dell’uomo e del creato. Chioma è la matrice mistica di ascendenza. Ed è questa matrice in un determinato momento storico: l’insanguinato presente di guerra nei Balcani e il presente italiano di sordità selettiva, incapace di udire il rumore delle bombe o il grido dei torturati, degli umiliati. Chioma è laddove si sente, laddove si registrano gli echi delle esplosioni, del sorvolare di aerei armati. Chioma è il punto di contatto fra l’uomo e la terra bombardata è la fusione degli elementi naturali in una divinità immanente, è la bestemmia del dolore e l’ascesi alla lucidità dell’amore. E’ un cammino di coscienza, l’istantanea drammatugica dell’insopprimibile reazione alla vita, alla salvezza. E’ l’innsecarsi di un processo di rivolta stigmatizzato dalla preghiera che chiude il testo:
‘Amore che sei il mio destino insegnami che tutto fallirà se non mi inchino alla tua benedizione’.
Nel lavoro succesivo si cambia lente al microscopio e ora quello che si vede è quasi più alla portata dell’occhio umano. Siamo all’interno di una cellula umana, le cui componenti biologiche compiono evoluzioni equilibristiche (da equilibrio) semplici, simbolo dell’armonia che regge la struttura dell’esistente. Una figura che richiama quella di Chioma (non per altro perché impersonata anch’essa da Gabriella Rusticali), forse l’immagine della matrice in ogni cellula, bussa alla porta della creazione, cerca di tornare in seno alle leggi da cui l’essere umano sembra irrimediabilmente uscito. Si inginocchia davanti agli alberi secolari, agli animali eleganti del bosco, si sforza di reimpararne la lingua, di tornare ad essere “dei loro”. E la sua decisione è trainante nell’invertire la rotta di quella piccola cellula organica, al non ammalarsi, all’ostinato centrarsi sugli assi della vita, della benedizione, del ripassare tutto l’abecedario della creazione. A declinare tutti i nomi del bene. A produrre energia vitale.
Si cambia ancora una volta lente e all’azione dello spettacolo precedente consegue quella di Imparare è anche bruciare. L’ingrandimento ora è 1:1, ovvero dimensione naturale. Quello che vediamo è un essere umano, o meglio ne vediamo tanti, un gruppo, una squadra, per estensione una generazione. E’ la generazione dei ventenni di oggi, degli stancati dalla sordità e dai linguaggi meccanici. Dei “non ho niente più da perdere se non il cuore”. In scena il rito di un esorcismo generazionale, di corpi innescati dalla bestemmia d’amore di Chioma, e in cui ogni cellula si sintonizza per compiere il suo atto di purezza fino al sacrificio. Ma non c’è rappresentazione. Non si poteva, arrivati a questo punto. E in scena ci vanno i ragazzi che lungo un anno di formazione professionale al teatro hanno “imparato” ad ascoltare il grido ancestrale della divinità e ad allinearvi l’attività delle propruie cellule. Hanno disciplinato il proprio ascolto alla parola poetica, depurandolo dal fracasso mondiale. Hanno compiuto l’esercizio dell’azione determinante, l’apprendistato alla pratica della precisione. Hanno atteso le proprie trasformazioni. E Imparare è anche bruciare non è una rappresentazione di tutto questo, ma appunto il rito di riprendere contatto con il mondo compiuto e officiato da quattordici ragazzi. E l’agorà del teatro è una delle tante piazze in fiamme d’Europa o del mondo in cui giovani tornano a manifestare sotto le proprie bandiere. E che hanno bisogno di poeti che disegnino effigi sugli stendardi biachi avuti in eredità dai padri.
In questa consequenzialità sta la struttura che regge la trilogia. In come un quadro sia l’ingrandimento dell’altro e in come scorrendoli si segua l’evoluzione di una rivolta d’amore, una ribellione partita negli abissi della terra deturpata e divenuta evidente sotto i nostri occhi con un effetto domino che ha portato un gruppo di ragazzi ad essere attuanti, prima che attori.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -