Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 35
Dal 06/05/2024
al 13/05/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Le cause e gli effetti  
A parte la bellezza dello spettacolo, l’Elettra di Andrea De Rosa è una pratica di coscienza per un Teatro delle origini.      
di Gian Maria Tosatti      

La prima domanda all’uscita dall’Elettra di Hugo von Hofmannshtal, diretta da Andrea De Rosa, non riguarda l’estetica o tutti gli appigli che un critico adopera per scalare, con la dovuta irriverenza, l’opera altrui. La prima domanda è: “Perché sto male?”.
Si esce dal Teatro Mercadante fisicamente turbati. Mi torna alla mente una frase di Grotowski, che l’amico Vincent Longuemare cita nel mio libro Materiali per un Teatro futuro. Dice: “Non so cosa sia il teatro, ma quando lo vedo lo riconosco”.
Aggirando gli ostacoli per andare al cuore della questione penso a come il Novecento abbia insegnato al Teatro a porsi delle domande radicali. E penso all’esempio di Teatri impostati per l’appunto in base a certe domande essenziali. Il Teatro come rituale. Il Teatro come rivoluzione. Ma l’aspetto interessante di queste domande che sembrano partire dal Teatro, per portarlo fuori da esso, al rituale, appunto, o alla rivuoluzione, o a chissà cosa, è che in realtà sono da intendersi all’inverso. Cioè sono domande che mirano a condurre “i meticciati teatrali” al “Teatro”. Ovvero all’origine. Al mistero antico della sua genesi. Non troppo lontano dall’immagine franta che ce ne dà Aristotele. Un Teatro appunto fondato sul rapporto dell’uomo o della comunità con i propri miti o archetipi.

Nei secoli questo rapporto si è perduto. Perduto completamente. Il Novecento ha riportato al centro del discorso questo problema. Basti pensare agli spettacoli di Grotowki appunto, Akropolis in primo luogo, e poi Il Principe Costante, Apocalypsis cum fuguris. Il valore di quegli spettacoli (lo si dica una volta per tutte) consisteva principalmente nel fatto che essi mettessero al centro un’indagine radicale sul rapporto fra mito e comunità, o archetipo e singolo spettatore. Il resto (attore santo, ecc.) è pane per teatranti. Pane che è quasi un’ostia consacrata, ma sempre per teatranti, a loro esclusivo uso e consumo. Ora però non è difficile rendersi conto come questa tendenza non sia sopravvissuta di molto a tali esperienze fondanti. Il problema dell’origine e senso del teatro sembra essersi perduto.

Quello che è, però, importante rilevare è che la principale differenza fra il Teatro dell’antichità e il Teatro contemporaneo sta nella quasi assoluta mancanza di conoscenza che quest’ultimo ha dei propri Miti”. Così chiudo un saggio sulla maschera che sto preparando. E così credo di dover iniziare prima o poi un discorso realmente critico.

Ma in questa sede si dirà che invece il valore dello spettacolo di Andrea De Rosa, cui questo articolo è dedicato, consiste principalmente nello stare dentro la Questione. Nell’esserci fino in fondo. Nel raggiungere il suo Effetto. E’ per questo che esso rappresenta un evento di estrema importanza nel panorama teatrale italiano ed europeo. De Rosa si pone il medesimo problema di Grotowski. Lo risolve in maniera differente. Non ci costruisce su un sistema. Lo fa solo da regista. Ma lo fa.

Le mosse sono le seguenti: individuare il mito e di conseguenza stabilire un rapporto chiaro con lo spettatore attraverso cui canalizzare il flusso semiologico. Alla prima esigenza risponde brillantemente chiedendo aiuto ad un autore che ha già studiato a fondo e compiuto la complessa traslazione, nel quadro della contemporaneità, del mito “legato ad” Elettra, cioè quello dell’attesa e dell’invecchiare dei corpi trascesi nella loro possibilità di incidere sulla risoluzione della propria condizione esistenziale-sociale. Hofmannsthal ne distilla il sangue in un testo di estrema profondità e bellezza. Alla seconda esigenza De Rosa risponde chiedendo aiuto a Hubert Westkemper che gli fornisce lo “spazio”. Lo stregone del suono toglie fisicità agli spettatori… ne scinde le molecole e attraverso la tecnica olofonica li trasforma in ectoplasmi che si aggirano aerei in mezzo agli attori, in balia di un turbinare di suoni in movimento la cui irruenza (a volte dolcissima) li soffia via come aria.

Detto questo si dovrebbe tornare alla frase di partenza. “Non so cosa sia il Teatro, ma quando lo vedo lo riconosco”. Ma d’altra parte porsi i problemi non è fare del Teatro. Risolverli neppure. C’è qualcosa di più. Qualcosa di magico, o di umano. Che compete appunto alla possibilità che il meccanismo produca elettricità e di conseguenza generi “induzione” nei fili scoperti degli spettatori.

Questo appunto De Rosa fa accadere creando attraverso il supporto-portale delle cuffie una comunione materica fra azione e attenzione, fra attuanti e testimoni, creando fra essi continuità di sangue, mescolanza elementale. In questo modo lo spettacolo è esperienza intima, annulla il viaggio della “comunicazione” e agisce al livello immediato della trasmissione. Il mito ottiene energia. E scende attraverso i canali del corpo come gocce di lava in fusione. Evitando lo scoglio della comprensione, la paralisi del dover capire. Lo si avverte per cognizione. Non bisogna prenderlo. E’ lui a prendere lo spettatore-individuo. Il miracolo profano della catarsi riesce, ma riesce sul serio.

E mi sta bene di non capire come sia possibile che per tutta la durata dello spettacolo, per ogni secondo, e frazione di secondo, chi scrive (e avrà scritto almeno di un migliaio di spettacoli se non oltre) abbia visto nell’attrice Frederique Loliée Elettra in carne ed ossa, fisicamente presente. Ed abbia provato di fronte a questa donna tutto il disagio che si proverebbe di fronte ad un morto che ci cammina davanti compiendo azioni e dicendo parole al presente.
Una grande prova anche per gli altri attori, specialmente Maria Grazia Mandruzzato che si conferma una delle migliori professioniste del nostro Teatro.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -