Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


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Appunti a margine di un evento taciuto  
Riscrivere del Quartett di Egum Teatro scoprendo che non si deve.      
di Gian Maria Tosatti      

Roma, 8 dicembre 2004. Teatro Vascello

Cominciamo in grande: Che cos’è la critica? Se la critica è “parafrasi” di uno spettacolo allora Quartett di EgumTeatro impone con autorità il silenzio alla parafrasi critica. Esercizio quest’ultimo sempre insensato e spudoratamente insignificante che solo certi spettacoli, però, riescono appunto a mettere in stallo, a umiliare (l’esercizio, non lo zelante critico che con piglio idiota ci prova lo stesso). Sono questi spettacoli di cui lo spettatore si fa geloso. Spettacoli che il pubblico non vuole sentirsi raccontare in altre parole. Insomma Quartett di Annalisa Bianco e Virginio Liberti è uno di quei capolavori del Teatro che resterà forse sconosciuto come tale, ma che ha espresso una delle più alte possibilità della scena che si siano viste in un cospicuo corso di anni. Forse non resterà nei libri di storia, perché l’hanno visto in pochi o perché politicamente non avrà rappresentato un fenomeno in grado di farne mitologia a prescindere dal “fatto artistico”, ma nella storia di quelli che lo hanno visto, rimarrà sicuramente. E prima ancora rimarrà in quelle piccole storie del teatro composte a mente da quelli che dentro il teatro si sono bagnati le caviglie.

Rilanciamo: Quartett di Egum Teatro è uno spettacolo bello perché è perfetto. Perché ha un’altissima consapevolezza di sé. Perché sa dove vuole andare. E costruisce con stupefacente precisione uno strumento in grado di portarmi esattamente lì. A questo punto ogni parola di spiegazione si fa pedante, ma prima di tutto inutile.

Detto questo procediamo con alcune osservazioni disordinate che non parlano dello spettacolo. (E il lettore noterà che non se ne farà parola veramente).

Quanta superficie di palco è coperta dai corpi! I corpi dei due attori in scena, attaccati, come rinoceronti dai parassiti delle proprie meccaniche sentimentali (due giovinette, con tanto di “cartella” come si usava un tempo, un numero imprecisato di manichini-feticci e un esecutore-narratore, che è anche il custode irriverente del marchingegno magico del teatro). Corpi sdraiati a terra, come in svenimento. Caduti per capogiro. Per la violenza compulsivamente perpetrata srotolando il rullo mulleriano. I due corpi pesanti si muovono a passi lenti. Cercano di mantenere l’equilibrio. Per il resto sono peso che porta a terra. Sono a loro volta feticcio plausibile per una strabordante fisicalità, per un’iperproduzione di carnalità. Ma anche sono il peso necessario di difesa per sopportare la spirale amorosa dell’automutilazione, della sottrazione di senso che lega al filo del collasso Celentano e Muller.

Ma per ordine…

Premessa:
NON PARLIAMO DI EMOZIONE.
NON PARLIAMO DELLO SPETTACOLO.
SOLO ALCUNE NOTE SUL SUPPORTO ANALOGICO (perché l’hanno costruito proprio bene e bisogna pur dirlo).
Si compenetrano sei diversi livelli espressivi. Il primo è la traccia sonora in playback del dialogo mulleriano cui toccherebbe reggere la dorsale narrativa della drammaturgia. Toccherebbe perché tale prospettiva è negata dalla tessitura complessiva, che intreccia ad essa il livello visuale dei corpi che seguono l’azione drammatica, incarnandola, subendola, opponendovisi, e il livello sonoro della voce sussurrata che soffia nelle parole del testo, contro le parole del testo.

Tema:
Come disse Sartre, è il lettore a scrivere l’opera letteraria.

Svolgimento:
L’affermazione è presa alla lettera. Annalisa Bianco e Virginio Liberti tecnicamente spostano il fuoco dell’azione drammatica di Quartett dal piano del palcoscenico (dov’è assente) al piano della platea (dove si ricompone fuori syncro). La drammaturgia complessiva dello spettacolo non è basata sul concetto di narrazione, ma su quello di ricostruzione (attraverso materiale emesso dalle diverse fonti). In questo modo la confusione delle figure (lo scambio mulleriano dei ruoli, che viene moltiplicato qui dalla sovrapposizione della traccia in playback doppiata da altri due attori) ha la funzione di vanificare la possibiltà che nello spazio possa aver luogo un concreto accadimento qualsiasi. La scena è una bocca da cui arrivano come allucinazioni codici che che cercano l’incastro nella disciplinata ordinatura della percezione. Quella stessa percezione che è stata affinata attraverso la costruzone di una distanza straniata, o meglio, da un’ipnotica distrazione.

Osservazioni ulteriori:

La tessitura drammaturgica complessa e giocata sull’intreccio di molteplici livelli è così stretta e perfetta che permette la consistenza della figura in scena incarnata da Virginio Liberti, che scompone il quadro, lo chiude, lo capovolge ironicamente, soffia sul castello di carte producendo variazioni progressive al tema eseguito.
Ma credo che in fondo il valore dello spettacolo stia nella totale consapevolezza della compagnia che il proprio gioco raffinato si regge grazie alla potenza del fattore Muller (che qui vuol dire fattore della problematica espressa da Muller, ma anche modalità espressive), nel quale si risolve l’obiettivo della messa in scena e la statica della costruzione teatrale.

Conclusione:

Perché Liberti che canta Milly e Celentano è qualcosa che ha a che fare con la Bellezza assoluta? Forse non c’entra niente con Muller, o col teatro ed è un ricordo che mi porterò dietro a lungo. Ma in realtà credo che questo momento sia tanto straordinario, perché rappresenta la sintesi, la pietra angolare dello spettacolo. Perché è l’ennesimo capovolgimento linguistico che per l’ultima volta non mi sottrae il fuoco del problema, ma me lo lancia addosso nella sua integr(al)ità da un punto inatteso. E mi vince, come voglio essere quando entro in teatro.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -