Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2024 NUMERO 37
Dal 13/05/2024
al 20/05/2024


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Appunti critici (abbiate pazienza!) su un pezzo di storia.  
Osservazioni raffazzonate sull’Amleto della Societas Raffaello Sanzio con dodici anni di ritardo.      
di di Gian Maria Tosatti      

Parigi, 11 novembre 2004. Oggi, e per soli altri quattro giorni, la Societas Raffaello Sanzio riprende il suo Amleto. Spettacolo che forse più di ogni altro ha segnato il punto di svolta del teatro fra ciò che ha preceduto e ciò che ha seguito gli anni ’90.

Dopo tre anni di silenzio una eccezionale riproposizione cui va dato merito a Georges Lavaudant, l’Odéon e il Festival d’Automne. Biglietti esauriti da mesi, e pubblico accorso da ogni cantone dell’Europa per non perderselo. Un’ora e mezza in cui si ha la sensazione come pochissime altre volte, di aver assistito a qualcosa che ha a che fare con la storia del teatro. Al termine si confondono le impressioni, tra riflessioni sgangherate e mantenute tali dalla voglia di stare nel “dove non ho capito” e l’ammirazione per il lavoro esemplare di Paolo Tonti, per cui ci da una parte ci vorrebbe un saggio di mille pagine e dall’altra sarebbe una follia spiegare a parole quello che fa accadere in scena.

A chi spetta il compito di scriverne (cosciente che la scrittura critica è un puro esercizio ozioso) tocca la responsabilità di cavare degli appunti dalla serata. E guai se volessero esser altro. E incominciando a rielaborare si dirà che:

Questo Amleto è una tragedia dell’oggettivo. Come nella frase che il protagonista ripete: “My dream is a crime”. Niente interpretazione. Alla lettera il sogno di Amleto è un crimine. Il sogno contenuto nella partentesi dell’azione drammatica è il sogno di un omicidio. Ma al pari l’omicidio che regge l’azione drammatica shakespeariana resta di fatto un sogno. Alla stessa maniera, dunque, di come questa frase debba prendersi alla lettera va considerato questo attraversamento tragico, privato (e non privo) del pregresso narrativo, della linearità ordinata dal prepensato. La ricerca (ed è per questo che il presente Amleto è uno spettacolo fondante se lo si inquadra nella sua prospettiva storica) è quella di uno stato perpetuo di genesi drammaturgica. La cancellazione della fattualità è una affermazione del presente progressivo come tempo immemore, retto dal “qui e ora”, unica (credibile fino in fondo) declinazione possibile dell’atto teatrale.

Ma (sia detto a beneficio dei lettori “civili”) ciò non ha niente a che fare con la logica dell’happening o della performance. Amleto è un’opera totalmente teatrale, perché va alla ricerca assoluta della sua teatrabilità. Il suo negare un ordine drammaturgico lineare non significa negare “l’ordine drammaturgico”, piuttosto ricreare per esso una dinamica altra (ricerca che ha caratterizzato poi gran parte del teatro degli anni ’90). In questo caso la dinamica non parte dalla sequenza temporale, ma dall’identità spaziale. Immaginiamo allora cosa accadrebbe se in una pellicola, in cui luoghi e azioni si susseguono secondo l’ordine temporale degli eventi, decidessimo di bloccare un fotogramma per giorni e giorni e giorni. Lo spazio di quel fotogramma, una stanza o un luogo aperto acquisterebbe allora una priorità d’attenzione. E la traccia audio (portatrice di un’ordine narrativo) che continuerebbe a ripetersi per decine di volte diverrebbe tessuto di percezione vulnerabile alle confusioni per sovrascritture e stratificazioni magnetiche.

Eccoci qui, la sequenza temporale ripetuta, quasi insensatamente, sarebbe un tessuto percettivo di fatto simile a quello di un bambino autistico, in cui la ricostruzione di tutto dipende da un’enigmistica oggettuale, ovvero dal recupero delle forme e le figure di cui l’eco seriale ha sfocato (aperto) i contorni (Tale logica generale si ritrova ulteriormente esemplificata, come processo cognitivo del pensiero, nello spettacolo durante la scena della scrittura sul muro).

Dunque in questo Amleto siamo nella stanza della percezione. Nella percezione della tragedia. Dove è l’ Amleto di Shakespeare a dettare legge. E Amleto (personaggio)“occupa” , come accenna Castellucci, questa stanza. Non si esce, non sono permessi sconfinamenti o libere letture. Amleto (tragedia) è il senso di essere Amleto (personaggio) messo a dura prova. E questo Amletoè quasi disarmante nello scegliere la soluzione naturale, evitare le proiezioni del problema posto (Essere o non Essere) e scendere alla sintesi reale, cioè di quello “stare” di fatto nell’Essere e non Essere, che è la condizione di Amleto dal primo all’ultimo verso shakespeariano. Amleto è un personaggio (e per estensione una tragedia) sordo. Un non risolto e irrisolvibile. Non c’è possibile catarsi. Il pathos è dunque impausibile in questo Amleto dei Raffaello Sanzio, che non è neppure all’osso di sé, ma al suo midollo osseo. Ché se di un personaggio non risolto è impossibile ottenere un ritratto unitario (com’è testimone la storia del teatro, da Shakespeare appunto a Carmelo Bene), allora è paradossale buon senso impedire che “un particolare” Amleto sia l’Amleto di tutti anche per una sola sera. L’Amleto degli spettatori. La scelta del corpo autistico allora, non è un veicolo metaforico a tale scopo, cioè per creare una distanza, perché è appunto, come detto, l’estroversione della cognizione di sé nella circostanza del dover agire, ma assurgerebbe e assurge perfettamente anche a questo ruolo.

La distanza fisica con un soggetto autistico rende lo spettatore testimone non partecipativo. Osservatore impassibile, come uno studente di medicina che assista ad una autopsia (operazione su corpo morto – quindi di natura mutata/diversa rispetto a quella dell’osservatore). Questa chiave, poi, Castellucci la eleva al quadrato scegliendo la strada dello “specchio contro specchio” (ed è forse per questo che nelle note di regia chiede pazienza allo spettatore); l’operazione procede, coerentemente con l’Autore (Shakespeare), senza esplosione né implosione. Questo Amleto non si spinge mai verso un punto di rottura. Resta in sospensione alla ricerca di una pacificazione che è negata dal silenzio. Dal non rispondere degli oggetti stessi, che sono il veicolo fisico del suo dominare l’interrogazione. Dal non dare risposte della situazione in stallo. Fino all’annientamento finale del soggetto in una regressione allo stato di potenza.

Tracciato questo primo quadro orientativo (?) si dovrebbe procedere con la lettura semiologica dell’azione, con lo studio di tutti i dettagli che costituiscono una tessitura PERFETTA (va sottolineato) di rimandi. Coi bossoli-sperma-potenza, i bossoli di pistola che non riescono ad eliminare la propria estraneità alla carne del protagonista. Cadono dalle tasche, saltano dalla pistola come colpi inutili, entrano nella bocca e vengono rigettati senza che essi trovino un l’incastro di senso per l’attuazione del compito(-identità) cui si riferiscono. Con la faccia del protagonista che diventa progressivamente più nera. E ogni altro singolo oggetto. O l’alternarsi ritmico del moto per inerzia e la meccanica attivazione del movimento. Ma non si finirebbe più ed anzi si andrebbe a mettere le mani tra le pieghe di un lavoro che non merita l’oltraggio di venir spiegato o tradotto in un linguaggio altro e necessariamente più debole. Gli appunti generici di questo articolo bastino ai lettori nella speranza che tale evento straordinario sia destinato a ripetersi ancora e permetta a loro di esserne testimoni.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -