Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Il valore del Tempo  
Tre anni su Faust per superare Faust, per restituirci l'umanità delle figure che hanno affrontato il lavoro teatrale. Così Faust Memories di Lenz.      
di Gian Maria Tosatti      

Si sale, si vede.
Si scende, non si vede più.
Ma si è visto.
(René Daumal)

Parma - Tre anni per tentare una ipotesi di messa in scena del Faust. Tre anni tra le infinite ombre del monumentale capolavoro di Goethe. Tre spettacoli prodotti: Ur-Faust, Faust I e Faust II. Che cosa resta dopo?

Ecco, è proprio su questo rimanere, sulle tracce perduranti, come le deformazioni di una qualche malattia dell'infanzia dagli oblii dolcissimi, che lascia leggermente zoppi o soggetti a vuoti temporanei di coscienza. Su questo insistere che si centra Faust Memories, lavoro di Lenz Rifrazioni per attore solo restato a fare i conti che non tornano, tra l'abbacinante memoria degli incantamenti attraversati e il dolore da lenire. La vista è prosciugata. Lo spazio scenico è ridotto ai minimi termini.

Sul cemento pochi oggetti ammassati, sbattuti negli angoli, sparsi nell'infinito evocativo di una scena disarmata. Lo spettacolo è smontato, la sua forma manipolata dai macchinisti, desacralizzata, oggettizzata. Materassini di gomma, un mucchio di palloncini pieni d'acqua, la testa di un Paperino. Resti di qualcosa che è arso. Di qualcosa che non c'è, ma è passato. Una visione vuota che è pure inspiegabilmente carica, come le vecchie pile (prima del litio), di una memoria rimasta appesa.

In mezzo a quei resti Sandra Soncini, desolata, battuta, sempre battuta dal tempo. Sempre sotto, sempre troppi minuti fa. Mischiata, confusta tra gli oggetti, scolorata in essi e principio di una memoria che torna rilasciata in parole attraverso la presenza imprescindibile di una voce. Non di un attore, perché quello è appunto in grado di scomparire e restare come eco al presente di un detto-stato (un detto per stato). Ecco Faust spogliato dai suoi abiti monumentali e dalla sua ingaggiata nudità. Faust svanito, transcarnificato. Faust oltre la sua figura, nell'integralità della sua circostanza al passato prossimo, in tensione che si esaurisce tra ripetizione e dimenticanza. Scorrono o restano esposti i riferimenti di un iter compiuto durante tre anni e distillato in questo monologo, anzi, in questo insieme di monologhi faustiani. Fino a disegnare uno spettacolo dai molteplici livelli di lettura. Un'opera impensabile senza la coscienza di una memoria interna, di una momoria di percorso. Un'opera viva dentro sé stessa, dentro i sui livelli profondi, quelli che io non vedo, quelli che stanno in fondo al pozzo; che non capisco e che pure mi affascinano perché nel non riuscire a seguirli mi indicano una discesa oscura mostrandomi le cicatrici ancora aperte, non sanate, sul corpo di questa donna-Faust, provata dai suoi affondi, dall'ostinato cercare di venirne a capo e poi contenere l'esposizione alle figure assenti degli altri attori passati, in un'opera titanica, di cui s'insegue un'impossibile (?) cognizione.

E forse quello che ci interessa è appunto questo: l'umano conflitto. L'umano che riesce ad emergere dal momento che la struttura non pone ostacoli, è levigata, acuminata e quasi perfetta nella sua sembianza di rogo. E riesce ad ardere nella misurata dinamica di quel corpo frammentato, sempre in collasso tra la mancanza e il colmo dello spazio fisico nella misura del tempo. Sandra Soncini sta nella sua presenza integrale, non risparmiata, concessa, arresa nella memoria di Faust. Umana appunto nella cruenta esibizione delle proprie ferite aperte, delle mutilazioni da cui zampillano i suoi accenti pre-drammatici che insistono ad armonizzare sulla partitura goethiana composta a quattro mani da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto.

Ed è questo essere oltre lo spettacolo, pregio primario della teatralità che si supera e si compie nel distillare le note alte della propria consapevolezza conquistata, che la rotta di collo dell'attrice (davvero, davvero imppeccabile) ci affascina nella radicalità del confronto di una donna nel suo mettersi di fronte a qualcosa che pare essere fuori misura. Un sacrificio forse.

E allora è sugli applausi che si resta quasi ammutoliti. Si battono le mani a lungo o si resta a guardare la Soncini in tutto il suo sbigottimento.


L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -