Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


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Una nuova temporalità dei corpi  
La luce come spazio e tempo in There where we were, ultimo, eccellente lavoro di Dejà Donné.      
di Gian Maria Tosatti      

GENOVA - Al Teatro della Tosse tre giorni per scoprire There where we were, la nuova creazione (Total Theatre Award ad Edimburgo 2003) del multietnico gruppo Dejà Donné, di stanza a Praga, città d'origine della coreografa Lenka Flory (che qui firma la regia). Tra i suoi componenti un coreografo italiano, Simone Sandroni, e due danzatrici, Teodora Popova e Masako Noguchi, rispettivamente dalla Bulgaria e dal Giappone.

Indipendentemente dall'altissimo livello tecnico e d'interpretazione dei tre danzatori in scena, la forza di questo lavoro è immediatamente visibile nella meticolosa tessitura drammaturgica. There where we were parte da un assunto di base, da un topos ultra visitato come quello delle relazioni a tre e non si preoccupa di nasconderlo o di giocare sulla sua ambiguità. In There where we were è tutto detto dal principio, fino all'ultima parola, a quella che cade giù da sola oltre la fine di un discorso. Ed è proprio nell'ostinazione dell'esporsi, esporsi di corpi e di figure a oltranza, allo sfinimento, che si sviluppano le sottili variazioni del teorema. Ma non c'è autocompiacimento, non c'è recitazione, a respingersi, vivi, a soffrisi, sono i corpi nel loro scontrarsi, nel loro ridursi ai minimi termini, uno verso l'altro, nell'emergere, l'uno dall'ombra dell'altro.

Ed è proprio la ritmica organicamente serrata a far stringente il disegno drammaturgico, quasi soffocante, violento da non lasciare scampo. Ogni gioco è dunque scoperto ed è quasi l'inesorabilità dei corpi e la loro insostenibile resistenza sulla scena, ad essere il vero "gioco registico", la loro ostinazione a restare, a tornare, a non uscire mai, semmai allontanarsi per essere punti di fuga, controcampo relativo dello sguardo, compromesso e compromettente.

Dal primo all'ultimo minuto sul filo della crisi, come sulla lama di un rasoio divenuto piano nel bianco quadrato performativo (stretto in un cielo bassissimo da cinema scope). Ma c'è qualcosa di più, qualcosa ancora di veramente rilevante. Qualcosa che cambia, che rende possibile tutto, che lascia emergere i corpi come presenze, come "al presente". Vincent Longuemare (light designer di fama internazionale, autore tra le altre cose del progetto luci per L'isola di Alcina del Teatro delle Albe) costruisce una luce che non illumina, che non si appoggia sullo spazio, ma è essa stessa lo spazio e il tempo. Luce che non è "sui" corpi, ma "dai" corpi. Come se si desse un attimo prima e fosse già tutta nel movimento e sparita alla sua fonte nel momento in cui divenisse visibile. Quella luce di riflesso, che continuamente s'avvita come il colmarsi di una clessidra ad acqua è l'asse stessa dei corpi, ne è la circostanza, è la luce del giorno prima.

Qui in questa creazione in cui si esaltano le possibilità della danza contemporanea sta la lezione che condivide l'eresia trainante dei giovani maestri europei come Wim Vandekeybus e Jan Fabre, liberatisi da tempo degli ingombranti retaggi tradizionali, che solo oggi paiono crollare nel resto del continente e generare una disorientante frattura familiare.

Un lavoro questo che ci auguriamo di poter vedere ancora in Italia.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -