Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


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L'occhio nel punto di fuga  
Valerio Binasco in Cara professoressa di Ljudmila Razumovskaja esalta la disillusa acutezza di uno sguardo sul presente.      
di Gian Maria Tosatti      

Cara professoressa di Ljudmila Razumovskaja, come dire che a volte bisogna allontanarsi un po' per potersi osservare meglio. E la Russia non è poi troppo lontana. Ecco. A volte uno spettacolo teatrale, può mettere un punto nel periodo. Può essere il nodo alla gola nel discorso.

Un nodo, non un'interruzione. Un'esitazione. Come la memoria improvvisa e istantanea di un valore cui si credeva molto tempo prima, forse, quando ancora non gli si era dato un nome.

In una sera di primavera, quattro studenti fanno visita a una donna sola, la loro professoressa. Hanno uno scopo preciso e motivazioni vaghe. Le linee delle loro vite si incontrano in un punto primitivo all'ombra di un grande declino, all'ombra di una doppia disillusione. Due generazioni completamente trascese nella propria possibilità di incidere, di modificare l'impatto dei propri condizionamenti si osservano stupefatte di sé. La Russia sovietica e il suo sistema inceppato, il nemico americano, che è un nemico per davvero e che ha già vinto, contano poco forse, tutt'al più fanno la differenza che c'è tra un televisore a colori e uno in bianco e nero, (ma, per dirla tutta, in bianco e nero si pensa meglio e si fa prima a fondere le bandiere).

Leggo, dopo la recita all'India di Roma, quello che scrive Valerio Binasco del testo che ha deciso di mettere in scena nella brillante traduzione di Mauro Belardi (che si dimostra elegantissima nel saper cogliere le sottilissime sfumature e contrasti tonali, sui quali si regge la forza di testo e messa in scena). Per dire di Cara professoressa ad un certo punto usa la parola "ingenuo". E forse in questo. Solo in questo, sbaglia. Ed è strano, perché proprio lui che pare averlo capito così bene questo testo, rendendolo una partitura di precisione musicale, una tessitura iper-performativa in cui la violenza del tempo e del suo scorrere come un'ubriacatura si distilla con dolcezza dallo spirito amaro di un altro tempo, da un tempo "sopra", ceda alla parola sbagliata (certo solo quella). Cara professoressa di Ljudmila Razumovskaja, infatti, raggiunge esattamente il suo scopo, e si pensa in maniera cinica come segmento di una tensione che sfoga altrove, e non come spazio del conflitto. E' un lavoro a cavallo di un disequilibrio che perdura, che va oltre il concetto di perestrojka, partendo da un quadro sociale molto ben reso di una realtà, quella sovietica, ma anche quella dei Paesi del Patto, per finire a calcolare la prospettiva esistenziale di ogni singolo individuo socialmente indeterminato. L'analogia scolastica allora si vuole facile. Gli studenti sfogano tutto il bene che il loro cuore sopporta contro o verso le pareti del potere che riconoscono, contro il volto umano, l'unico riconoscibile per intermediario e arbitro. Fuori dalla porta, un Paese senza nome in cui alla fine, per forza sconfitti spariscono. Pure, allo stesso modo, sarebbero potuti restare, e restare ancora. E sarebbero restati in quella loro sospensione, che è il solo tempo concesso per preoccuparsi. Tempo su cui Binasco costruisce tutto il suo percorso narrativo.

Ma lo fa in maniera perfetta. Cara professoressa è infatti "il" testo per Binasco (ad oggi uno dei migliori registi in circolazione e senz'altro il migliore per un teatro "classico contemporaneo"). E lui evita l'idea di un tempo statico sviluppando una dinamica delle sospensioni. Provoca un'aritmia cardiaca che mette continuamente in pericolo l'organismo adolescente dello spettacolo, e così gli pompa nel sangue l'adrenalina di un ritmo giocato sui cromatismi paradossali del positivo e negativo (glielo permette la già citata traduzione di Belardi). Tutta la struttura è retta dai vuoti, dalle pause, dai colpi a vuoto, attorno ai quali si raccoglie lo sforzo inerziale di argomentare, di riprendere un discorso finito ben prima di cominciare. Di riappropriarsi delle parole che sono state sottratte e nascoste. E si fa non a caso il nome di Dostoevskij, e dunque dell'idiotismo o idiozia di questo compito assurdo.

"Se avessi preso la chiave ce l'avrei fatta" dice, su per giù, uno dei protagonisti in un dato momento. E le parole di questa frase si sgretolano sulle sue labbra, tanto che si fa fatica a udirle. Così come del resto tutte le altre parole di un dramma che non esiste, di una scrittura che si pensa così bene che è poi quasi impossibile ricordare una sola parola di quelle dette. Una scrittura che è sottilissimo, trasparente schermo di proiezione per qualcosa che è ben oltre se stesso. Il principio, infatti, non è quello del tubo catodico, ma proprio di quegli schermi trasparenti, in cui l'immagine arriva da un punto esterno e prosegue verso un altro punto più ampio, ma nell'attraversare la superficie di plastica mostra qualcosa di chiaro che è impossibile vedere nel luogo d'origine del fascio luminoso come nel suo disperso spazio d'esaurimento.

Ma l'altra tecnologia determinante in questo caso è quella della scena. Maria Paiato, una stupefacente Claudia Coli, Denis Fasolo, Aram Kian e Fulvio Pepe, nel costruire con estrema cura i loro personaggi febbricitanti, intontiti dal disgelo e dalla perestrojka, a cui si crede, si crede come ad esseri umani, ci mostrano la differenza tra un teatro che ha attraversato il '900 ed uno che non lo ha neppure voluto vedere (ironia della sorte all'Argentina c'era "Il benessere" di Mauro Avogadro, assieme a questa un'altra produzione del Teatro Due) e la differenza si nota tutta. E altrettanta cura è messa nell'impianto delle luci di Pasquale Mari e nella coppia scene-costumi Antonio Panzuto e Sandra Cardini.

Ma a parte i paragoni a far la differenza è la partecipazione del pubblico, la loro attenzione perfetta, la loro reale, intellettuale e sentimentale partecipazione (e non si pensi che in teatro accada più di una volta ogni cinque o sei anni) e un applauso che non premia, ma condivide. A fare la differenza è la maturità di un regista che molto sta facendo per un teatro italiano in linea con la tradizione, nel proporre oggi un testo che parla chiaramente a questi giorni e nel costruirlo con un grande rigore fino a fare della verità scenica lo strumento ideale per introdurre alla riflessione del testo, per mandare a casa gli spettatori con sulle spalle il peso di molte domande dissepolte e di una sacra inquietudine.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -