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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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Tra circo e rivoluzione.
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Celedon e il suo Nouveau Cirque etico-politico torna a Polverigi con O Divina la Commedia - Inferno, lavoro nuovo di zecca sul rapporto tra uomo e Dio.
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di Gian Maria Tosatti
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Gesù disse: "Forse gli uomini pensano
che io sia venuto a gettare la pace sul mondo,
e non sanno che io sono venuto
a gettare divisioni, fuoco, spada, guerra.
Cinque saranno in una casa:
tre contro due e due contro tre,
il padre contro il figlio e il figlio contro il padre.
Ed essi se ne staranno soli".
(Vangelo Apocrifo di Tomaso)
POLVERIGI (AN) - Debutta a Polverigi l'ultimo lavoro del franco-cileno Teatro del Silencio, diretto da Maurcio Celedon, che due fa anni s'impose in Italia con Alice Underground.
Si pone subito un problema: Cosa voglia dire Celedon e cosa effettivamente dice col suo racconto incrociato di ricami ipertestuali che vanno ad intessersi sulla trama dell'Inferno dantesco?
La questione non è sul senso, ma sul grado di pericolosità di quest'opera, perché a capire dove vuol portarci il regista ci arriviamo subito. Dopo pochi minuti, infatti, minuti mozzafiato, bisogna dirlo, in cui dalle segrete infere del palco escono corpi animali, bestie umane, dotate di quella forza inconcepibile che possiedono le anime dannate per resistere in eterno ai loro micidiali contrappassi, una domanda spezza il fiato dello spettatore. "Dimmi mio Dio, sei forse tu il peggiore dei peccati?"
In questo punto vuole colpire Celedon e il suo inferno dantesco diventa la bolgia mondiale delle guerre di religione e del loro strascico funebre che spezza il collo alle precarietà della Terra. La pista rialzata diventa allora piazza d'armi e terreno di preghiera, interrogativo posto alle evocazioni di popoli in travaglio, alle loro guide cieche. O Divina la Commedia - Inferno nasce come risposta ad uno scenario preciso, nasce come riflessione sul rapporto teso al limite della nevrosi esistenziale tra l'uomo e Dio, alla radice dell'interpretazione del Verbo.
Ne esce un'opera potente, con echi politici, che spara interi caricatori di significati e simboli sulla folla stipata nelle gradinate del tendone da circo che accoglie l'evento, ma che ancora fa fatica a riconoscere con precisione il centro del bersaglio. Niente di grave se si pensa che questo spettacolo è al suo debutto assoluto, ed è fisiologico che chieda ancora un po' di tempo per registrarsi e calibrare la propria mira, per trovare il grado zero della freddezza, il valore del colpo di precisione per quella che ad oggi pare ancora una sventagliata di mitra.
La direzione che s'impone a questo spettacolo se vuol farsi veramente letale sembra quella di definire con maggiore precisione la sua spina dorsale. La costruzione appare infatti come un arcipelago di vertebre, ognuna più o meno ben costruita, ma sparpagliate, non ancora ordinate una sull'altra nell'unico ordine possibile a costituire una colonna vivente. Per far questo Celedon dovrà passare certamente per l'ancora non risolto midollo drammaturgico legato al personaggio di Dante. Ma prima di tutto dovrà specchiarsi con crudeltà efferata nel suo lavoro eliminando senza esitare ogni elemento che si configuri come solo come una ricerca di effetto estetico sorprendente. Il rischio che pare insinuarsi in questo momento è evidente nei momenti in cui lo spettacolo s'abbandona e si concede a se stesso. Sono i momenti non necessari, in cui la musica, che ci pare il vero punto debole del lavoro (una maggiore raffinatezza avrebbe evitato qualche scivolone da musical), sembra voler disegnare uno spazio epico all'azione col risultato invece di far calare la densità drammaturgica in una maschera ritmica vuota e gonfiata di una logora retorica spettacolare. E così analogo ragionamento per la troppo generosa produzione di simboli il cui peso chiede di essere minutamente calcolato e ordinato in sottrazione.
Togliere è vero, non concedersi nulla, eliminare come si fa per trarre da un sasso la punta acuminata di una freccia, ma far anche perno su quei principi profondi che a volte riescono ad emergere con impeto irrefrenabile attraverso immagini la cui forza di risolve in una trasparenza capace di far passare completamente la purezza della propria urgenza.
Momenti di bellezza quasi intollerabile si sviluppano lungo tutto il corso di un'opera che si attiene ad una ortodossa poetica novocircense.
Tra i frammenti che difficilmente si potranno dimenticare c'è sicuramente il canto di Ulisse, la cui nave viaggia verso l'Inferno e s'alza creando una prospettiva di verticalità invertita. In cielo, appeso alla barca, il grondante e nudo corpo androgino un'anima dannata, puro anelito disperato, corpo-segno di trasparenza assoluta, sospeso sul punto di precipitare sulla sottostante scena santa del Battesimo di Giovanni, svolto con rituale sacralità. E ricordo poche cose che in questi anni abbiano fatto male come questa, attimi di poesia visionaria capace di detonare con violenza il carico delle tensioni emotive scaraventandolo sul corpo esposto del pubblico.
Alla ricerca di questa radicalità deve gettarsi Celedon in maniera spietatamente efferata verso sé stesso, perché l'importanza del suo obiettivo non permette concessioni di sorta. All'altezza ci sembra, intanto il valore potenziale di quest'opera, che si presenta come un'istruttoria ampia e rapida, in cui il volto austero di Dio si sfaccetta in quello dei suoi molteplici idoli lasciandoci la domanda se essi siano i frammenti di un mosaico che una volta assemblato non mostri un'immagine che davvero non ci s'aspetti.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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