Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Non ci dimentichiamo di Daura e Arterio  
Tornano in scena I Refrattari di Marco Martinelli in un nuovo allestimento del Teatro delle Albe.      
Ravenna, Teatro Rasi. Fino al 18 maggio.
di Gian Maria Tosatti
     

Riallestire I Refrattari. È il teatro di giro, il teatro delle grandi platee, il "teatrone" che ci ha abituati alle repliche infinite, alle riprese, ai riallestimenti. "A grande richiesta" le compagnie tornano o tornavano su vecchi testi che magari sono già dei classici. Sono i grandi successi a rinverdirsi, a liftarsi, per incontrare spettatori nuovi, di nuove generazioni, con un intento di solito (giustamente) autocelebrativo. Oppure penso a quei riallestimenti legati alla vita biologica di una compagnia, in cui all'attor giovane passa il ruolo di primo attore, al primo attore quello del genitore, e al figlio del primo attore quello del bambino, Peppinello magari (scuola dell'obbligo di tutto quel teatro napoletano che ha attraversato Miseria e nobiltà di Scarpetta).

Riallestire I Refrattari non rientra in nessuno di questi casi. Quando debuttò nel 1992 venne quasi soffocato dal dilagante successo del Mor Arlecchino e oggi non cambia i suoi ruoli in base agli avvicendamenti generazionali, ma sostituisce certi attori di allora con altri che in questi dieci anni sono diventati colonne di quella cattedrale (con annesso oratorio) che sono le Albe. Restano comunque ai loro posti i due protagonisti Ermanna Montanari e Luigi Dadina, che detto tra parentesi ci consegnano una prova magistrale su cui c'è davvero poco da dire (ma di cui molto si dovrebbe parlare), si conferma Mandiaye N'Diaye e s'aggiungono Maurizio Lupinelli e Roberto Magnani.

Riallestire I Refrattari diventa allora un'esigenza d'altro tipo, che poi è quella che muove il Martinelli drammaturgo, un'esigenza più schiettamente sociale, politica nelle sue tensioni e disillusioni. Quello dei testi (suo anche questo) è un Martinelli che ride amaro, che affonda le dita come radici nella terra di questa romagna refrattaria e le ritira fuori piene di fango, negre.

Riallestire I Refrattari significa voler tornare dal sogno (degli ultimi lavori) all'allegoria, dalla visione alla vignetta (nelle sue più alte e complesse possibilità). Tornare alla Romagna scura di Daura e Arterio, alla bassa del '92, significa sentire il bisogno dello strumento allegorico nella dialettica Teatro-cittadino oggi, anche oggi. Riscrivere Aristofane, imbrattandolo del fango ravennate, di quella palude sommersa che se scavi ancora la vedi e sembra che scorra sangue, sangue nei suoi canali, ma se lo trovi ti dicono che è vino. Così iniziò nel '92 l'avventura delle Albe e così la si può vedere oggi, identica, sulla stessa Romagna, qualche strato più su. Sulla scena sono sempre la Daura e suo figlio Arterio, questo nucleo familiare archetipo nella ventrale casa che di esso è emanazione, vaso dalle stesse combinazioni cromatiche del maglione della mater, ma più animate, animali.

Tesi tra l'identità che risiede nel passato e l'identificazione nel presente che si proietta al futuro stanno, illuminata la loro terragna consistenza da quell'epica solenne degli ultimi che ci riporta a Pasolini o al cinema di Straub, di Turoldo e che poi si farà (seguito endemicamente da Mahler) sublime caravaggesco di madonne coi piedi sporchi di terra nel quadro pittorico dell'altissimo finale.

Nella testa di questi protagonisti la tensione a negarsi, a chiudersi, a morire, come la loro lingua, come la memoria dei nonni che piantavano i chiodi coi pugni e li strappavano coi denti, come il buio di cui sono pieni i loro armadi, le loro cassapanche. La luna allora o la sua icona, cimitero celeste, silenzio e calma. Nel sogno ingenuo di questo viaggio verso la luna si consuma il primo atto in cui il mondo irrompe sfacciatamente attraverso l'uscio della casetta nella bassa, con le sue inaccettabili pretese. "Sulla" luna si consuma invece il secondo atto, in cui le visioni dell'ineludibile appartenenza irrompono sfacciatamente nel mondo, dal pertugio della mente. "Ma dov'è che non mi mettete gli occhi addosso!?" sembra dire Arterio che ancora ha i piedi per terra, che non è esente dalla pena per raggiunti limiti di età. In quella porta aperta sul fondo, in quell'uscio pericolosamente spalancato si risolve la domanda che questo spettacolo pone, o meglio gira al suo pubblico, in maniera diretta, in dialetto quasi. Come con-vivere con questa porta? Arterio la murerà nel finale e del murato vivo (o del murato morto) farà la fine. Martinelli ci dà per risolta la risposta facile, l'unica risposta possibile, ci toglie il jolly e ci lascia in mano il terribile mazzo invisibile delle domande da giocare. Ci chiama alle spalle per avvisarci che c'è caduto dalle mani (o l'abbiamo buttato via con nonchalance ancora una volta appena ci siamo sentiti non visti). Lo raccogliamo. Andiamo a casa stanchi, più stanchi del solito.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -