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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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Il mattatoio e l’altare |
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Verso una nuova trilogia: #3 – Conversazione con Cesare Ronconi |
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di Cesare Ronconi e Gian Maria Tosatti
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Caro Cesare, abbiamo la nostra riflessione su Valdoca ha attraversato un percorso chiuso. Al presente invece la compagnia sta lavorando ad una nuova trilogia, questa volta dichiarata. E si attende per luglio il debutto della seconda parte (la terza sarà presentata in autunno). Cos’ha generato questo nuovo progetto?
Tutto è nato da Imparare è anche bruciare. Avevo e avevamo voglia di dedicare due anni ai nuovi attori che stavamo formando attraverso i due progetti di scuola realizzati in collaborazione con Ert. Abbiamo pensato un progetto in tre parti che tuttavia costituiscono un corpo unico. Avevamo bisogno di rinnovare la sessione attorale della compagnia, di lavorare su delle figure fisiche tecniche nuove, giovani. Ma non è un discorso concettuale. Di fatto gli attori giovani hanno qualcosa che gli attori che hanno lavorato con te per anni non hanno. Hanno una qualità di parola, di movimento diversa dagli altri. Per cui questa trilogia è un po’ come tener fermo il letto del fiume e far scorrere un’acqua differente.
E i motivi che stanno dietro alla scelta dei temi e delle forme?
Sono molteplici e legati al disagio di questo tempo. E’ qualcosa che ad un certo punto ho avvertito fisicamente e ho sentito la necessità di mettermi a cercare le parole, di trovare parole forti che raccontassero questo disagio. Assieme a Mariangela abbiamo iniziato un lavoro sul testo che definisse con precisione il presente opprimente. Dall’altra parte volevamo però tentare di trovare anche una leggerezza del del fare, uno sguardo adolescente che è appunto tipico di figure molto giovani. Sentivo il bisogno di dare al nostro lavoro e dei corpì più contemporanei delle voci più sgraziate.
E com’è composta?
La prima parte è oracolare, l’hai vista. E’ un iter liturgico, una esposizione integrale. Questa seconda sta apparendo, invece concentrata sul non agire, sul movimento più puro, più depensato, meno finalizzato alla scena. In questo momento abbiamo voluto introdurre una inazione, un non fare, un ascolto del luogo. Nella terza parte vorrei riprende i timbri del primo e anzi rafforzarli. Saranno in scena due attori, gemelli, uniti nel corpo e nell’abito, che parlano all’unisono, come siamesi. Tornare ancora più indietro, alle origini della prima parte. Sarà una riflessione sulla vita e la morte in occidente. Il titolo è inequivocabile, Paesaggio con fratello rotto. La prima parte si intitola Fango che diventa luce. La seconda probabilmente Canto di ferro. E la terza sarà un testamento in senso stretto.
Un testamento?
Sì, dopo questo lavoro vorrei per un po’ sigillare la mia voce e dare spazio ai ragazzi producendo e aiutando a nascere cinque loro progetti. Sarà una sora di allargamento, retto dal pensiero che questa scuola possa essere un luogo di produzione poetica, tecnica, organizzativa, umana. Non è un fatto sociologico, è un fatto artistico. Io credo che gli artisti debbano fare un percorso, fermarsi a un certo punto e far parlare i dipinti, le opere. Io vorrei fare questo nel 2006-2007. Aiutare cinque cose a nascere e portare in giro questa trilogia a cui tengo enormemente.
Ripercorrendo gli ultimi tuoi spettacoli ho trovato delle tracce piuttosto significative che imparentano il tuo lavoro con la ritualità religiosa. E il primo “atto” di questa trilogia si apre con un segno spaziale evidente, un altare-macello. Qual è il rapporto del tuo teatro con il rito?
Non è una questione che riguarda solo il mio lavoro. Teatralmente uno spettacolo è un rito. C’è un officiante, l’attore, e un partecipante. Questo è il fondamento.
In quanto si è visto fino ad ora di Paesaggio con fratello rotto, ad apparire evidente è una opposizione tra Oriente e Occidente, punti non geografici, ma cardinali….
Sì, perché vedi, è evidente come l’Oriente abba una spiritualità diffusa, molto semplice, molto laica, che l’occidente non ha. I gradi fiumi sacri dove la gente va a morire, a farsi bruciare o farsi immergere è di questo un segno e un esempio.Vista da Oriente la spiritualità è strutturale. In Occidente temo che la situazione sia completamente diversa. Abbiamo costruito un grande progetto laico basato sulla forza dell’economia. Tale progetto è risultato sbagliato in tutte le sue forme sperimentate. Soprattutto allo stato attuale in cui domina il valore del denaro e dell’impresa economica. Tutto questo è raggelante per la disfunzionalità che comporta, sia sul piano emotivo che fisiologico, affettivo. Nel modello che abbiamo costruito negli anni abbiamo sbagliato gli ingredienti. Ma il problema ora è che manca il coraggio di ammetterlo. Ché se lo si facesse davvero si getterebbe il panico in questa costruzione immane.
Il teatro in questo scenario come si pone?
Il compito del teatro è quello di tenere fermo un giuramento che è quello di salvare la delicatezza dell’umano. La sottigliezza. Io credo che le cose non si possano risolvere a tavolino. E’ necessaria una pratica e il teatro è una pratica d’ascolto, di nutrimento. Una pratica in questo senso religiosa.
Il teatro di Cesare Ronconi è un teatro politico?
Sì, direi proprio di sì. E’ politico perché è basato sull’osservazione della realtà e perché si pone il problema della relazione degli umani. E’ un teatro che si mette di fronte al coro che è appunto l’umanità. Ma lo è in una forma sottile, non esplicita. Una forma radicale. Pensa ai versi degli spettacoli, come “amore che sei il mio destino/ insegnami che tutto fallirà/ se non mi inchino alla tua benedizione”. Sono messaggi politici potentissimi.
Che cosa insegui attraverso il teatro?
Vedi, sono convinto ci siano varie fasi nella vita. C’è l’adolescenza caratterizzata da una grande forza, irruenza, voglia di arrivare da qualche parte. C’è la maturità, più oggettiva, in cui i sentimenti si stabilizzano. Poi si arriva a una sorta di distacco in cui cominci a pensare di privarti delle cose e, direi, anche del linguaggio. Senti il bisogno di arrivare a una secchezza, un’essenzialità della vita e privarti di quasi tutto. Arrivare a una capanna in cui vivere. Poi c’è l’ultima fase in cui è necessario abbandonare anche quella capanna e iniziare a mendicare. La carià delle percezioni, del mondo, della vita. Io sono nella terza fase. L’abbandono degli oggetti. Questo ha coinciso con la mia scelta di donare molte cose importanti che avevo e a cui tenevo, una barca, una bicicletta da corsa, uno strumento musicale. L’ultima fase, la successiva, è il sigillo della voce la leggerezza totale. Così dovremmo essere alla fine del nostro lavoro, tabernacoli del vuoto e del silenzio.
Se mi domandi cosa inseguo è appunto in questo ordine di cose che ti rispondo.Vorrei trovare una grande libertà mia dalla vita. Sentirmi sempre più libero dalla vita, dalle cose. Vorrei innescare un processo di spogliazione anche dalle convinzioni. Perché c’è un momento in cui anche le convinzioni si allentano. Poter stare in grande attenzione.
Mi pare che questo sia anche il nodo centrale, la domanda che muove questo secondo passaggio della trilogia…
Sì. Abbiamo sperimentato molto, creato tanto materiale e ora abbiamo il piacere di non agirlo, di lasciarlo come delle macerie. Sentire un poter far tutto, ma essere prudenti nel farlo. E’ uno stare in ascolto. E la terza parte sigillerà questo pensiero, questa deposizione delle vanità. Ecco, quest’opera è un processo di spogliazione. Siamo partiti con grandi pensieri e arriviamo quasi a un silenzio finale.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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