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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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A posteriori |
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Impressioni di un percorso con Mariangela Gualtieri |
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di Mariangela Gualtieri e Gian Maria Tosatti
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Cara Mariangela, cominciamo da principio in questo excursus a ritroso. Vorrei mi raccontassi come sono nati gli spettacoli di questa vostra Trilogia della Rivolta…
Prima di uno spettacolo resto perplessa quando qualcuno ci chiede quale sia il nostro progetto, il programma, quali siano le nostre idee chiare, o se abbiamo una volontà precisa. In realtà noi siamo molto “selvatici” nel nostro modo di lavorare. Se mi domandi i motivi di una genesi ti rispondo che essi non sono mai lucidamente razionali. Sono atti che hanno a che fare con un sentimento di necessità, con la cognizione che si stanno mettendo assieme certe forze che spingono verso un parto. Alla fine ti accorgi che tutto ha preso una forma molto precisa.
E rispetto a Chioma qual è stato il sentimento che percepivate?
Chioma è nata subito dopo Parsifal. In quello spettacolo avevamo visto una Gabriella Rusticali molto cresciuta. Abbiamo deciso di dedicare del tempo ad un’attrice che aveva raggiunto una maturità lucente e che lo meritava. A questo si è sovrapposto il nostro viaggio a Sarajevo per il capodanno del 2000. Allora l’occupazione era finita, ma erano ancora forti i segni della guerra. Anche oggi non ho una parola abbastanza forte per dire quello che quelle ferite aperte mi hanno trasmesso. Le nostre televisioni e i giornali che quotidianamente ci informavano sul conflitto avevano dato a noi italiani uno spettro vuoto di quello che realmente è stato e che continua a sanguinare ancora dopo tempo. In quei giorni ci raccontavano che durante l’assedio gli abitanti della città sono dimagriti tutti dai quindici ai venti chili. E’ una notizia che mi ha sconvolto. E tutte le sensazioni che ho provato in questi luoghi di guerra, di assedio, sono poi è finite in Chioma. E di fatto è così, i nostri spettacoli assorbono il presente storico che vivono.
Predica sembra partire dallo stesso presupposto per andare poi in una direzione opposta.
Predica è nato inseguendoo certe tonalità di colore. Poi, poco dopo l’inizio delle prove si è consumata la strage delle Torri Gemelle, e anche in questo caso il presente è entrato di forza nella scrittura. Perché io che scrivevo non ero più la stessa persona che aveva iniziato a comporre i primi versi. Ero stata ferita. E nel testo è comparso l’orrore, il panico generale di quei mesi in cui si percepiva che qualcosa o tutto poteva finire nel mondo, che stava arrivando qualcosa di ancora più terribile. A quel punto io non volevo che lo spettacolo scalciasse come gli altri, perché già scalciava il mondo. Avevo bisogno che fosse un canto d’amore. Soprattutto. Avevo bisogno di quello.
In questi spettacoli mi pare però che non ci siano solo cose che finiscono dentro i vostri spettacoli. Perché essi invertono la polarità di questo orrore. Chioma è un percorso ascensionale verso l’amore. Predica è un ostinazione al nominare il bene. E Imparare?
Beh, c’è un'altra cosa. Credo che ogni spettacolo nasca da un innamorarsi di qualcosa. E in questo caso io mi sono innamorata veramente dei ragazzi che hanno preso parte alla scuola, di quell’età, di quella “sconclusionataggine”, di quella superficialità, di quella profondità, di quel mondo che non sono io. Per tutto questo ho provato un affetto grandissimo e quindi la voglia di mettere nella bocca di ognuno le parole che loro non riuscivano a dire. Mi pareva che quella fosse una generazione molto mancante di parola, molto distratta rispetto al proprio dolore. Continuamente in fuga. E quindi volevo trovare le parole della loro ferita, di quello che non va a posto nella vita e che c’è e ad un certo punto dev’essere affrontato.
E quali sono i valori che hai scoperto a posteriori in questi lavori?
Caro Gian Maria, tu mi chiedi a quali domande ha risposto lo spettacolo, che passo avanti ho fatto... A me sembra una domanda che non c’entra niente e trovo strano che mi faccia questo effetto di non entrarci niente, ma è così. Forse perché uno spettacolo non è mai per noi una cosa che riguarda l’intelletto. Non farei mai uno spettacolo per rispondere a delle domande. Forse lo faccio proprio per dimenticare le risposte e le domande e stare da un’altra parte.
Forse il risultato ha più a che fare con la compassione, cioè con l’avere dato forma a qualcosa che fa di un gruppo raccogliticcio come è un pubblico, un corpo solidale, una umanità.
Ma la cosa che davvero porto con me è che ho visto tre spettacoli che mi hanno entusiasmata, e questo è una ricompensa enorme.
L’entusiasmo è una componente fondamentale della mia vita e se voglio rispondere alla tua domanda ne debbo parlare.
Quando uno spettacolo debutta e poi viene replicato, comincia ad emanare qualcosa che non ha più a che vedere con chi lo ha scritto, diretto o agito: un elemento sottile che è sfuggito a tutta la macchina concreta e razionale che mette in scena (è sfuggito o si è invece incuneato), e che è proprio ciò che emoziona e per il quale vale la pena aver compiuto tutta la cerimonia dell’allestimento. Ecco, questo indefinibile che non può essere espresso dalla lingua corrente e che aveva bisogno di tutta la cerimonia, per invalidarla, in un certo senso, insediandosi nel suo punto intimo, questo indefinibile è la meraviglia dell’arte, ciò che ce la rende necessaria. E quando lo colgo, come spettatrice, mi entusiasmo.
E’ rara per me la possibilità di entusiasmarmi a teatro. Ci sono davvero pochi spettacoli entusiasmanti: questo non capita con la letteratura, con la musica o con l’arte in genere perché tutto ha un archivio comune che va dal contemporaneo all’antico e al quale si può attingere continuamente. Ogni arte ha, se non nel presente almeno nel passato, esperienze che entusiasmano adesso. Il teatro, come sappiamo, ha solo il presente. Sento dunque che, benché vi sia ora un accanimento furioso su ogni fronte di azione, sul versante teatrale c’è uno spazio vuoto: è troppo poco e troppo raro il teatro che io considero tale. E dunque questi tre spettacoli, (ma ogni nostro spettacolo in cui si sia pronunciata correttamente la formula magica), mi danno l’illusione di aver fatto qualcosa che andava fatto, qualcosa che era mio compito fare, con la puerile contentezza di “avere aggiunto anima all’anima del mondo”.
Imparare è uno spettacolo nato da una scuola di teatro realizzata in collaborazione con Ert. Qual è il valore di vincolare uno spettacolo ad un percorso formativo?
Educare vuol dire condurre fuori… fuori dall’ordinario.
Io credo che nel percorso verso Imparare sia stato consegnato ai ragazzi qualcosa che ha a che fare con l’essenza del teatro. Ed è stato bello perché la scuola in genere ti consegna tutto tranne l’essenza delle cose. La scuola non funziona. Forse è per questo che viviamo un tempo così impoverito. E’ difficile che ti venga consegnato quello che è da salvare. Ti vengono dati tutti gli accessori. La Storia, l’intelligenza, il ragionamento. Ma non quel fuoco, che deve passare da una generazione all’altra.
Chi ha partecipato all’avventura di questo spettacolo ha assaggiato qualcosa che non dimanenticherà. Come dicevi prima citando Daumal “si sale si vende, si scende non si vede più, ma si è visto”. Ma ci è voluto tempo perché ciò avvenisse, perché si innescasse un meccanismo da parte di chi doveva passare la consegna, e si muovesse qualcosa in coloro che dovevano riceverla. Ed è significativo il fatto che per tanti mesi io non riuscissi a trovare un canale per poter raggiungere la profondità delle loro ferite. Che i miei tentativi di portarli all’esposizione attraverso le parole passavano tutti senza attrito. Finché venti giorni prima dello spettacolo è scattato qualcosa. Cesare mi ha chiesto di scrivere i dieci punti fondamentali della vita (che aprono lo spettacolo) e io ho vuotato la borsa di tutto quello che avevo immgazzinato in quell’esperienza. Le cose che avevo scritto, i versi che avevo chiesto agli allievi di comporre, i libri che stavo leggendo. Mi sono calata al livello di quello che avevamo vissuto. E quando sono arrivata lì con quei versi anche i ragazzi li riconoscevano come roba loro e hanno iniziato ad entrare dentro una lingua che li scavasse a fondo. A quel punto, partendo da loro pensieri ho riscritto tutto il testo. Ed è stato un incontro. Il punto culminante di un cammino di avvicinamento iniziato da due lontananza. Ma anche uno spettacolo parte paradossalmente da questo stato di cose. Fare uno spettacolo è un altro processo di formazione.
Qual è il senso politico di Chioma, Predica e Imparare?
Vedi, io trovo a mancare totalmente sia questo aver cura del mondo. Forse è banale, semplice, ma è un sentimento che trovo in tutti i classici. Non ci sei solo tu, la tua famigliola, ma c’è il mondo. Ecco. Politico è questo. Aver cura. Aver cura di tutto il resto. Degli uomini o degli animali che sono bene o male nel nostro destino. Li trasciniamo con noi, come le piante. Ecco. Questo è politico per me.
C’è una cosa che avrei voluto chederti da molto tempo. Che cos’è il teatro per un poeta?
E’ una grande fortuna che a un poeta capiti il teatro. Lo vedo in questi giorni. Sto scrivendo cose che mi entusiasmano. La mattina scrivo e il pomeriggio le porto a in sala prove. E quando i versi e la scena si incontrano c’è una evidente caduta dalla letteratura alla vita. Al teatro. Non funzionano più le belle parole alte che avevo scritto. Devo togliere, impoverire per dare vita, sostanza a quei testi. E mentre lo faccio mi chiedo come facciano i poeti che hanno scritto senza avere una compagnia lì a cui portare il giorno dopo le parole.
Ecco, il teatro ti pulisce dalla letteratura. La parola che arriva allora è diretta. Attraversa l’orecchio e ti colpisce. Niente deve distrarti. Né un aggettivo, né un ornamento.
Il teatro è il fine o il mezzo?
Il teatro è un destino. E’ un obbedienza.Mi pare di non avere scelta. Di essere in una posizione in cui non posso neanche fare questa domanda. E’ un destino. Un obbedienza e basta. Ci son dentro tutte e due. Il fine e il mezzo.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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