Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
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Esorcismo di una generazione  
La trilogia: #3 - Imparare è anche bruciare      
Modena, maggio 2003
di Gian Maria Tosatti
     

Che ho 22 anni come gli antichi guerrieri di troia e di sparta
e non ho voglia di battermi, non ho voglia di mirare a un cuore e scassarlo
non ne ho voglia. Che non ho donne nemiche da sfregiare,
nessun nemico visibile, nessun nemico nominabile,
centrabile con un colpo solo

che ho un invisibile espanso nemico,
occupato a insinuarsi al centro del cuore, al centro del mio cuore,
che mi tranella con vecchi narcotici
che vuol fare di me suo ovile muto.


Così dice a un certo punto. Così dice. E prima e dopo infuriare di battaglia alle spalle di ritorni e di fronti giornalieri. Di vita e di bambini che nonostante tutto, nonostante questo “frastuono aeronautico”, continuano a nascere e ad ascoltare filastrocche e declinarsi in generazioni sempre più esauste e sommerse. Così dice, e ancora eleva un’ara di pietà, una parola d’amore.

Questo un panorama da Imparare è anche bruciare, ultimo spettacolo di Teatro Valdoca, che al debutto modenese delle Passioni, si impone come conclusione di un percorso annuale di formazione per 14 giovani allievi, realizzato con l’Ert. Un lavoro di estremo rigore formale, in cui i diversi linguaggi si compenetrano in maniera organica e vitale, una costruzione complessa e perfetta, come un acquedotto romano, dentro cui pulsa e scorre il fiume del testo scritto da Mariangela Gualtieri, che s’incanala verso ogni testa, ogni individuo presente e atterrito da un atto politico deciso, irrinunciabile, di fronte ad una visione di superamento che inginocchia. Quattordici ragazzi e una rock band portano in scena la loro enorme ricchezza di voce necessaria che Valdoca educa, fa del grugnito parola altissima, del grido canto evocativo, in un lavoro dal respiro serrato, che pure dà tempo ai versi di coniugarsi perfettamente nei corpi e nelle loro relazioni facendo nascere attimi di puro stupore per l’affresco dinamico di un tempo in cui la frattura diventa insanabile, in cui bisogna allargare, allargare la ferita e farla sanguinare, fino a staccarsi dal ventre mortifero della madre globale ed imparare, imparare dalle proprie mani, dal cuore.

Ecco perché questo spettacolo oggi. Perché arriva al cuore di quelli che chiedono, che chiedono silenzio. Che sentono sulle spalle il peso dei genitori pazzi e chiedono, ancora chiedono tra la certezza della vittoria e la paura di rinunciarvi. Sono i ragazzi che lottano contro l’educazione, contro l’ammaestramento. Ronconi ce li mostra senza il filtro del realismo ottico, il mondo senza la mascherina del mondo, come in quei libri sulle antiche città in cui se tiri via il lucido virtuale emerge la maceria attuale, la maceria tesa nel nella sua lotta contro il tempo. Ecco allora i corpi deturpati da tutte le cicatrici quotidiane, i capelli strappati, insanguinati. Ecco la voce rotta e la parola piccola piccola che diventa udibile, la bocca storta e la risata dei nemici interiori. Eccoci in questa dimensione struccata dalla portata infinita, dalla relatività endemica di altrove essenziale, di mappa strutturale, proiettata e sovrapposta, di hic scarnificato, di ancora non censurato, di stimmate nella testa e onore e imbroglio. Nella sua matrice stanno le adunate di Seattle, le piazze piene, Genova, il sentimento di questa Nazione adolescente che si ribella, che si contorce e sputa, sta ognuno di quelli che escono di casa e guardano dritto l’occhio del cielo. A risuonare sono i giuramenti di salvezza, sono le benedizioni alle legioni dello spirito, cui la Gualtieri intreccia una voce. La voce della cecità disperata. La voce del non credo nella cecità. La voce del giovane “cuore con grucce”, che soffia come tempesta la violenza dell’amore, la violenza della preghiera infantile. Il suo propagarsi nello spazio come eco e strazio, come emancipazione. A dargli corpo un coro di giovani esseri umani che sono qui scorticati e traumatizzati, con le loro scarpe cucite nei piedi, sbattuti su un tavolo freddo, sotto le sbavature di luce di un sole voltaico ronzante, a vomitare i frantumi della preghiera indomita che chiedono a sé stessi di sostenere con tutta la loro forza. E sparano, sparano sulla platea senza pietà le loro istantanee di ragazzi infranti, coi loro tamburi di guerra e di dolore, che battono una musica di resurrezione. E’ la tribù bambina di questa nuova preistoria, che parte per la sua crociata. Tra le loro parole e le loro invocazioni sono mescolate altre litanie e frasi rotte. Sono le preghiere dei bimbi annegati, portate dalle onde dell’oceano che sta solo un passo innanzi e di fronte al quale per un istante si ammutolisce. Così, questo spettacolo è ciò che sta contenuto in quell’attimo di silenzio. Nel silenzio prima di decidersi a negare, nel silenzio prima di partire. In esso stanno le icone della battaglia, della guerra logorante che si consuma dentro e fuori gli orari di lavoro, c’è la solitudine di fiore nel bosco, c’è la schiena di una ragazza, lì come una pietra, con la corona in testa e zoppa. Mani sui suoi capelli e carne che si mescola. C’è l’impulso, il puro impulso fisico che fa strage e mattanza, che abbatte e danza in faccia alla realtà nella sua verità radicale, necessità insopprimibile che sostiene un corpo testuale di estrema lucidità nel precipitare come lama da altezze inconcepibili di poesia.

In questo lavoro Valdoca sceglie di tornare ad essere banda per poter esplodere le sue visioni con la forza radiosa di quegli stessi giovani che sono al contempo soggetto e attuanti dello spettacolo. Questi ragazzi che hanno nelle gambe la tensione del volo sono belli perché in questi mesi hanno imparato a costruire le loro armi (e lo hanno fatto davvero bene), sono belli perché s’espongono al fuoco delle polveri col candore delle loro speranze e bruciano, bruciano come le frecce che danno l’assedio, come i santi delle rivoluzioni. E allora bisogna nominarli tutti, Valerio Bonanni, Valentina Bravetti, Serena Brindisi, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari, Margherita Isola, Licia La Rosa, Sara Marchesi, Mariella Melani, Muna Mussie, Marco Perfetto, Vincenzo Schino, Morena Tamborrino e i musicisti di Aidoru, che ti rovesciano addosso tutta la necessità della loro presenza, della loro azione, che gli incendia gli occhi quando vengono a prendersi gli applausi, che t’hanno dato tutto, e verrebbe voglia di andarsene, di scappare via perché questa crudele sincerità (che si disciplina nell’atto artistico e nella sua cura tecnica) oggi quasi non la si riesce più a sostenere.

POSTILLA DA DRO – agosto 2003

[…]
Diverso il discorso per Imparare è anche bruciare la cui esatta definizione potrebbe essere quella di un rituale, che allo spettatore richiede un’attitudine altra rispetto a quella abituale di testimone. Lo status che gli diventa proprio è quello del partecipante. Di fronte ai suoi occhi una generazione alza gli stendardi di una nuova e vergine volontà di presenza, di non fuggire. Un’opera complessa che nel momento in cui sembra uscire dal teatro avvicinandosi ad una specie di esorcismo di massa, di rito misterico e politico insieme, torna invece a riappropriarsi dell’essenza originaria della scena. Gli spettatori diventano allora una tribuna che incoraggia e soffre, si arma e sbatte e si rialza. Qui si definisce il doppio rapporto di necessità che regge quest’ultimo spettacolo di Valdoca. Necessità esterna è la funzione assembleare in cui il pubblico prende parte ad un’invocazione di gruppo perché si mostri e ceda l’anello che non regge di questo realismo ventrale che narcotizza le nostre allerte animali e tragiche, i centri del dolore. Necessità interna è qualcosa che realmente si compie in carne ogni volta che il rito viene ripetuto, è la trama-grammatica in cui Mariangela Gualtieri tesse il filo spezzato che è grido sordo di questa generazione in rivolta per farne una preghiera capace di resuscitare hic et nunc i quattordici ragazzi in scena.

Ecco, Imparare è anche bruciare è la chiamata alla Guerra Santa di Daumal, alla guerra partigiana per la riconquista della propria terra esistenziale straziata e insanguinata. Così quest’ultimo lavoro di Valdoca è vero teatro nel momento in cui trascende il teatro per diventare azione, azione politica, sociale, di coscienza compiuta attraverso gli strumenti della scena.
[…]

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -