Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


Aggiornato il lunedì sera







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Elogio del mezzo tono  
per una cultura del sotto tono      
di Fabrizio Arcuri      

Eh già, alla fine, di grande evento in grande evento, eccoci al dunque di nuovo a inneggiare al silenzio.
Penso che il secolo scorso andandosene si sia portato via un bel po’ di ciarpame. E spero definitivamente si siano messe da parte le polemiche sterili e segretamente cattoliche tra contenuto e forma, tra anima e corpo, per un laico e più ragionato tutt’uno inscindibile.
In fondo credo che le avanguardie storiche ce lo abbiano insegnato e per tutto il secolo ci abbiamo fatto i conti, la rivoluzione si fa con la forma che se non veicola anche dei contenuti rimane solo una scialba riflessione sul mezzo e che il più delle volte ne decreta anche la crisi.
In fondo in fondo le cose non sono mai state molto diverse, è il desiderio di protagonismo a fare da ago della bilancia è sempre stato così prima erano i teatri i palchetti d’onore dove si esibiva la corte oggi è la televisione, eccolo lì il reality con tutte le logiche necessarie, la disputa, gli argomenti di tendenza, la catarsi e chi ne è protagonista? Uno di noi si proprio uno come noi, beh, il trasfert è immediato e definitivo, senza contare poi che l’interattività e la votazione con sms ti consente anche di decidere cosa continuare a vedere e cosa eliminare, un potere della democrazia, devastante.
Se poi proprio tutto tutto non è vero, e siamo costretti a crederlo come tale, meglio, facciamo allenamento per i fatti di cronaca e di quotidiana attualità dove la realtà e la finzione si giocano la vera partita.

Ora quello che mi chiedo è, come salvarsi da tutto questo?
Forse il pensiero di un’ artista o di un intellettuale deve fare i conti con questo, per quello sento la necessità di ripartire, di tornare al silenzio, al mezzo tono, per partire da una piccola verità su cui magari costruire cerchi concentrici di invenzione ma che si allargano da un nucleo di verità.
Facile dirlo ma qual è la verità?
E chi può dirlo?
Così il discorso diventa dialettico e di certo non si può arrivare al bandolo.
Però può essere un punto di partenza per rintracciare una serie di quesiti, perché in fondo, malgrado ogni tanto uno se lo dimentica, forse il ruolo dell’artista è proprio quello, se vuole staccarsi di dosso tutto il calcare che questo termine si è portato dietro, quello di porsi e porre delle domande.
Di certezze ne abbiamo viste molte e le abbiamo viste evaporare come fresca brina al primo sole dell’alba, le abbiamo viste a sinistra e a destra, nei corridoi e nelle aule fredde e un po’ asettiche degli uffici, tra baffuti burocrati, e signore eleganti, contrattare la soglia dell’accettabile fino a calarsi le mutande (ophs perdonate la caduta di stile) e definire di volta in volta il compromesso possibile.

Forse si finirà per dire sempre le stesse cose ma è un rischio che vale la pena di correre, la spettacolarizzazione, il tono sostenuto e portato, l’aggressione, il ritmo, quanto è insopportabile il ritmo a teatro, che abbaglio, che miraggio, pensare che se uno alterna i toni la gente non si annoia, ma che vuol dire?
Perché se uno strilla per due ore e si rincorre per tutto il teatro allora uno non si annoia, ma dove vivono?
Quanta energia sprecata.
Mi viene da pensare che effettivamente si rincorrono dei canoni che sono tipici di altri mezzi ma che essendo lo specifico di questi mezzi hanno perso in partenza, fare la tv a teatro, fa pensare che è meglio la tv al teatro, assioma che non fa una piega.
Se poi questo corrisponde a una maniera e non nasce da una esigenza interna a quello che si sta rappresentando, intendo al testo e ai rapporti e alle relazioni che il testo intesse allora si può ricorrere al fascino del fascismo e dell’esasperazione quanto si vuole ma proprio non si sopporta più.
In fondo, mi viene da pensare, che non è un caso che il fascismo sia nato in Italia, e forse non ce ne siamo mai veramente liberati nell’immaginario, forse ce lo portiamo come retaggio culturale un po’ come la religione.
Pensate al foro italico ai discorsi del duce all’energia che sprizza da quei corpi perfetti a quelle magnifiche coreografie e che ritmo, belli, bravi e pieni d’energia da comunicare da invadere fino all’ultimo spettatore, ah che soddisfazione.
Poi se sia Shakespeare o Marlowe o chicchessia non importa.
Certo la Raffaello Sanzio come un faro nella nebbia dai tempi dell’Amleto una domanda ce l’avevano fatta porre e non nego che con gli ultimi episodi legati alla tragedia arriva un altro segnale.

Il primo quarto d’ora di B#4 della Societas Raffaello Sanzio penso raccolga e contenga un precipitato di realtà talmente elevato e devastante da essere il momento di teatro più intenso, senza esagerazioni, degli ultimi tre o quattro anni.
Una donna delle pulizie di colore lava con lentezza il pavimento di una stanza di marmo, vuota.
L’apice e la sintesi del collasso del mondo raccolta e stigmatizzata in una azione semplice e totalizzante da far sparire il resto della performance che non riesce a egualgliarsi nel tempo restante di un’ ora.
Certo poi si potrà dire che le manganellate sono efficaci al pathos e alla pornografia imperante, ma quell’aspetto mi interessa meno è quello che ci si aspetta dalla spettacolarizzazione, è il pugno nello stomaco, ma passa presto, mentre il lento aberrante graffio, l’impalpabile polvere che si alza da quel rimestare si deposita con fatica e lascia il segno più indelebile e meno consonante al bisogno di sangue e di fiction che lo spettacolo del meccanismo richiede.
Allora poi mi sembra di intuire che esiste un reale segno da parte della ricerca verso una necessità di affrontare la realtà di petto di confrontarsi con gli eventi e con lo strapotere del meccanismo perverso della comunicazione.

E se qualcuno ci fa porre delle domande, io me le pongo e lo ringrazio di non avermi dato un messagio che a stento come diceva Ionesco accetto da un postino.
Allora se la Bibbia diceva fuori i mercanti dal tempio bisognerebbe in epoca laica e confusa dire fuori i postini dalle arti e dalla comunicazione.

D’altr’onde anche Mario Perniola nel suo ultimo libretto Contro la comunicazione, snocciola bene la questione e il malinteso, la comunicazione è l’opposto della conoscenza, è nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti per raggiungere tutti orizzontalmente e immediatamente.

Ora, però qualcosa di assolutamente straordinario sta accadendo sotto gli occhi di tutti, lentamente e in modo assolutamente mortificante si sta sottraendo alla cultura la sua capacità prospettica e il suo potere progettuale.
Già, con i tagli avvenuti e quelli che si paventano quello che si distrugge realmente è la progettualità, senza la quale non si fanno grossi passi ma si mira vicino e si misurano i passi.
Forse sarebbe il caso di fare qualcosa.
Anche una caduta di stile.
Non so uno sciopero?
O è troppo proletario, troppo fuori dalle logiche radical chic dei denouements del teatro?

Ci ho pensato a lungo in questi giorni, e certo non sono arrivato a delle grandi conclusioni chiaramente.
Penso però che se scrivere fiction per la televisione è remunerativo perché qualcuno dovrebbe perdere tempo e impegnarsi a scrivere per il teatro?
Certo magari lo farà anche con la mano sinistra per passare del tempo, ma così non si crea una tradizione nè un percorso né una consuetudine, dunque nessuna ricerca.
Perché bisognerebbe lavorare per il teatro se da Amici in breve sei sulla bocca di tutti?
Facendo laboratori e seguendo la commissione zonale di Scenario è assolutamente evidente quali sono i modelli delle nuove generazioni, che si barcamenano tra coreografie da prima serata di rai uno e stanche parabole terzo teatrali ancora fortemente insegnate e sostenute nelle Università.

Forse abbiamo qualche responsabilità di questo?

E le stelle?
E le stelle come nella migliore tradizione stanno a guardare

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -