Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
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Pour en finir  
C#11 ultimo episodio ed epilogo della Tragedia Endogonidia.      
Cesena, 16-22 dicembre 2004
di Gian Maria Tosatti
     

L’ultima parola sulla Tragedia Endogonidia. L’ultima. Non c’è. C’è una Fine, e basta. E manca, alla Fine, la parola di bocca. Manca alla Fine la parola “fine”. Dell’autore che l’appunta rassicurantemente. Sulla scena finale della sua opera d’arte. Come a dire: “Noi, miei cari spettatori (o lettori) abbiamo chiuso”. E ci si accommiata. Si stringono le mani dell’autore (se c’è). Si fanno i complimenti. Bel lavoro. Abbiamo ancora qualcosa da dire. Dopo la Fine.
A Cesena, episodio undicesimo e a pieno titolo “epilogo” della Tragedia Endogonidia. La chiusa è violenta. E’ un punto secco. E’ una morte che non accetta seguiti. Buio. E gli spettatori non sono chiamati ad accommiatarsi. Finire con un’omicidio è piombare nello scolo buio della vita assieme al morto. Pigliarsi la porta in faccia. Gli attori non escono alla fine.
Questa doveva essere la conclusione. Una strozzatura secca. Una fine da fuori. Come i sogni dei moribondi, che si interrompono. Che si interrompono perché si muore in mezzo. Castellucci calibra il tiro e destruttura la sequenzialità del suo ultimo stasimo. Cinque quadri. In ordine progressivo 1 – 2 - 5 – 3 – 4.

QUADRO PRIMO:
che è quello in cui vediamo la stanza del bambino e il bacio della buona notte.

La scena è una stanza da letto anni trenta. Un bambino sugli undici anni viene messo a letto dalla madre. Scopriamo in queste due figure quelli che poco dopo riconosceremo per i primi due ordini di personaggi presenti nella Tragedia: i bambini e i soldati della concezione.

QUADRO SECONDO:
che è quello in cui riconosciamo la domestica negra che passa l’aspirapolvere.

E’ questo il passaggio in cui attraverso l’esca di una associazione facile, quella appunto della donna delle pulizie presente a più riprese come segno iperrealistico negli Episodi, cominciamo a ricondurre a quello spazio, fatto di organismi animati o inanimati, in presenza o assenza, tutti i simboli e i quadri della Tragedia Endogonidia in una dimensione domestica. Castellucci ci fornisce il quadro di riferimento di cui sino ad oggi la Tragedia aveva disegnato le linee strutturali, la spettrografia, i canali vettoriali delle forze in campo.
Ci è dunque reso un quadro di riferimento su cui riportare tutto.

QUADRO QUINTO:
che è quello in cui si compie il rito.

Un gruppo di framassoni entra nella stanza. Anche qui l’associazione arriva facile, il loro modo di muoversi e di parlare, la loro struttura gerarchica è la stessa dei fantomatici poliziotti che hanno attraversato il ciclo come “esecutori”. Un secondo gruppo porta notizie della scomparsa del bambino, della sua fuga. Il capo giunge con la notizia dell’uccisione del bambino (la madre ha rivelato il nascondiglio) e del recupero del “seme”. La stanza viene allestita per un rito di devozione. Il capo è cosparso di cenere. Sulla sua bocca il sorriso.
Scopriamo dunque l’identità di altri due ordini di personaggi che attraversano la Tragedia, i poliziotti (e i preti nell’episodio settimo) e i “demoni” (il capo dei framassoni ricorda nettamente la figura in rosso che puntualmente negli episodi giunge a completare il lavoro degli “esecutori”). Ma questa è la scena in cui ci rendiamo conto che il quadro di riferimento che abbiamo appena scoperto è a sua volta un piano analogico che ci permetta solo di traslare le coordinate che abbiamo raccolto nel tempo in un immaginario realistico definito e condiviso. La Tragedia Endogonidia, infatti, non si consuma negli anni ’30, ma oggi. E gli anni ’30 sono gli anni in cui si cominciava a ragionare sul controllo degli equilibri del Sistema. La gerarchia massonica è riconosciuta e riconoscibile, le tocca il ruolo di analogia.
Qui capiamo anche chi è il protagonista della Tragedia Endogonidia. Di chi il punto di vista. Il bambino è l’osservatore. Il bambino è l’elaboratore inconscio di ciò che osserva e si traduce nei contrasti fra le oscure gerarchie conosciute negli Episodi. Andando avanti capiremo come ogni singolo dettaglio nei comportamentidei personaggi abbia un corrispettivo immediato nella genesi di una figura tragica di questo ciclo.

QUADRO TERZO:
che è quello della sentenza.

La madre del bambino viene interrogata dalla domestica e dai framassoni finché non viene ridotta alla ragione. Scopriremo qui che la domestica, chiamata “la fata”, è ispiratrice del gruppo massonico e la sua natura è incerta. La sua figura appartiene all’ordine delle sacerdotesse in nero o del bambino lunare che appaiono nei primi episodi.
La madre in questo quadro mostra la sua doppia natura e si mostra come la Madre Anonima (altra figura ricorrente), incapace di salvare il proprio figlio.

QUADRO QUARTO:
che è quello della morte.

Una pizza di cinema ci presenta la fine del protagonista. La proiezione si apre sulla morte di migliaia di spermatozoi. Molteplici come gli spettatori seduti. E muoiono come il bambino. La scena prosegue con la ricostruzione di un bosco in cui il bambino non ha scampo. E’ trovato e ucciso. Punto.
Questo è il quadro in cui capiamo definitivamente che il protagonista della Tragedia è lo spettatore, rappresentato in scena dal bambino (in questo senso gli episodi di Londra e Strasburgo erano già stati chiarificatori). A questo punto allora anche per gli spettatori la Tragedia finisce con la morte del loro feticcio. E basta.

Conclusioni:

Fra il primo e il secondo quadro un lungo buio. Abbiamo lasciato il bambino nel letto. Un vento potente si alza contro gli spettatori, li avvolge in un turbine violento. Ci si ritrova all’interno di un ciclone che mescola uomini e segni e tutta la memoria della Tragedia Endogonidia. Si viene aspirati e la luce si riaccende sulla domestica di colore che passa l’aspirapolvere. Una sequenza geniale. Tutto l’universo degli episodi, le sue figure enigmatiche, i suoi spazi e tempi sospesi, tutto viene aspirato, asciugato e richiuso nel proprio corpo realistico. La figura della donna che pulisce è la porta per questa introflessione dell’universo tragico nel perimetro del reale immediato. Castellucci ci serve la fine, con crudezza iperrealista, il contesto secolare di cui per tre anni abbiamo spiato il teorema strutturale. Ora a tutto è dato un nome e tutto ciò che ha un nome, reciprocamente nasconde un enigma. Il tragico è servito.
Tre anni di lavoro, undici spettacoli prodotti, una ricerca che ha letteralmente aperto un passaggio nella foresta dimenticata del rito della tragedia. Tre anni che hanno anche proposto un modello produttivo complesso, ma innovativo, che è valso alla compagnia uno speciale Premio Ubu.
In realtà oggi saltare alle conclusioni sembra prematuro. Cercare di chiudere la Tragedia in una formula scritta sarebbe un’operazione poco credibile per il semplice fatto che il ciclo dell’Endogonidia si è consumato in progressione, senza obbedire ad un piano costituito e così è anche per questo epilogo. Si è aperto e si è chiuso. Molto della Tragedia è ignorato dalla Tragedia stessa. In realtà si può parlare di un fenomeno empirico che è solo all’inizio della sua espansione. Di un fenomeno che per essere studiato necessita del tempo adeguato a che si declinino i suoi effetti e il quadro generale si compia.
Dunque il ciclo di undici episodi ad oggi appare come solo una parte della Tragedia Endogonidia. Riprendendo il titolo di uno scritto di Castellucci si può parlare di “Tragedia del futuro” alla lettera. Quest’opera, nella sua complessità si mostra come un atto fondante, una genesi proiettata al futuro.
Nella prima conferenza stampa di presentazione fecero un certo effetto le parole della compagnia secondo cui quello alle porte sarebbe stato un progetto integralmente sperimentale e come tale “senza rete”. Dunque l’unica cosa chiara dall’inzio è che non ci si sarebbe trovati di fronte ad un’opera perfetta e così è stato nel suo complesso o nei suoi singoli “stasimi”. La Tragedia Endogonidia si chiude come una ricerca piena di punti oscuri, di ombre e opacità, di caselle mancanti, di abbandoni. Undici episodi per certi versi ipertroficamente straobordanti di materiale e al contempo, carenti, smangiati. Quello che rimane luminosamente in mano, sanguinante, è però la catena in certi punti interrotta di un dna molto antico. Recuperato ed esposto alla circostanza del presente. Una catena che, come la tavola di Mendeleev, dev’essere completata, ricostruita, inseguita, ma in cui già tutto sembra, a grandi linee, tornare. Una tavola che dev’esser fatta propria da altri. E proseguita.

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -