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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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Riflessione senza descrizione quasi in conclusione |
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Ha debuttato L#09, nona tappa della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio. |
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Londra, 13-16 maggio 2004
di Gian Maria Tosatti
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LONDRA - E sono in cecità. Nell'oggettivo stato di cecità. L'immagine che mi si forma davanti, il verbo che prende corpo in parola e suono è oltre la capacità del mio occhio. Esco confuso. Con la netta sensazione di non aver visto nulla. Come se si fosse aperto il sipario su uno schermo nero e su esso si fosse richiuso. Come se avessi guardato per un'ora dritto in un televisore dal tubo catodico rotto. Senza però impedirmi di avvertire che dietro quella cortina buia, benda alla mia finestra sul mondo, ci fosse gran movimento o piccolo movimento di uomini, persone. Che il movimento della Storia non si fosse fermato.
L#09, nono episodio della Tragedia Endogonidia, è costruito su questo disorientamento assoluto. Su questa irrimediabile cecità. Nel corso dell'opera intera l'obiettivo si chiarisce e il quadro si sfoca. Questo è il movimento che emerge dal corso degli ultimi episodi. Lo zoom punta sempre più precisamente verso lo spettatore, riferimento essenziale della Tragedia antica e di quella contemporanea. Qui a Londra Castellucci ci toglie addirittura l'impaccio di ipotizzarci protagonisti. Nomina i due personaggi principali di questo episodio "Te stesso dopo" e "Te stesso prima" (manca il "Te stesso durante" che è il soggetto sensoriale dello spettacolo e che non può essere rappresentato visto che già partecipa al rito o meglio è il rito stesso nella sua presenza in sala). Il movimento si scopre circolare, si rivela la perdita di un contatto con un diametro lineare credibile che possa essere spina dorsale di un orientamento deduttivo. Il soggetto è ostaggio della geometria della storia. Ne ha perduto il calcolo. Eppure percepisce che il suo venire trascinato da un punto ad un altro obbedisce ad un disegno. Ad un'architettura di cui s'ignora in primo luogo l'architetto. Nella circolarità ogni passo è cancellato immediatamente dopo essere compiuto perché l'impronta manca di senso.
Questa circolarità (il cerchio è l'entità geometrica che torna coscientemente in tutto il ciclo dell'Endogonidia) è la condizione ottica che ci mette in cecità. L'impossibilità del nostro occhio a poterla cogliere appieno e dunque l'overload che produce il nero carico di echi che come fitte assalgono la sensibilità dello spettatore, come emicranie oftalmiche lo pungono, lo torturano (e l'effetto è proprio lo stesso simulato dalle scariche di lampi al magnesio che Castellucci manda a sipario chiuso).
Non è sensato allora cercare una corrispondenza. Un approccio analitico alle immagini. O meglio non lo è in questa sede. Le immagini hanno lo stesso valore di quei lampi in cui apparentemente non c'è niente da capire. Anche in questi quadri, forse i più suggestionanti dell'intera Tragedia, non c'è niente da capire, né da cercare. E se si va a cercare qualcosa è il non capire, il non essere in grado di vedere, che ci viene restituito.
Le possibilità dello sguardo non vanno oltre la cognizione di sé in ogni immagine. Di sé in uno spazio ambiguo fitto di immagini e segni ambivalenti. Di parole rassicuranti-ironiche. Di luoghi familiari e minacciosi a un tempo. Di identificazioni del sé e sue repentine negazioni.
Il cammino è insidioso in un giardino segreto. In un orto mistico in cui ogni fiore al contatto si trasforma in serpente. Questo è il teatro che ci consegna la Raffaello Sanzio in chiusura di ciclo. Immagini che tornano. Parole che non riusciamo ad interpretare, come la lunga lettera di un San Paolo in abiti di antico lord che ci arriva impossibile da interpretare univocamente. Come se si fosse perso il codice. La possibilità di trarne il senso. Come se tutto fosse talmente estraneo da rendere inaffrontabile un'interpretazione. E la figura stessa di San Paolo, grottescamente resuscitata è a metà tra l'icona e un feticcio. Le sue parole apocrife ci annegano tra le trappole di senso. Ci soffocano. Si aggiungono come una coltre ineluttabile alle cataste di parole e parole e parole che sotterrano lo spettatore giorno dopo giorno.
In breve, e con l'approssimazione che si deve ad ogni sintesi, L#09 sembra essere un passo ulteriore verso la fusione tra linguaggio e spettatore. Verso l'abbattimento del rapporto "detto-capito". L#09 s'innesta nel pensiero. Nel suo meccanismo e mette lo spettatore di fronte al suo limite sensibile. Di fronte alla sua cecità. L#09 sorpassa la convenzione teatrale del logos. Non dice allo spettatore sei cieco. Ma lo abbaglia con un lampo al magnesio. Gli fa perdere la vista per un ora e gli fa provare la sensazione che questa certa cecità non sia poi tanto strana.
E' chiaro che la cecità indotta dai Raffaello è una cecità ad arte e dunque una cecità ancor più terribile di quella quotidiana e rassicurante che ci impone "dormi... dormi...". Una cecità chirurgica, calcolata in ogni dettaglio, in ogni aspetto della sua struttura semiologica.
Così uscendo, chi scrive, disorientato e senza forze, si è sentito simile a quei bambini truccati da vecchi, che ad un certo punto dello spettacolo protestano coi loro ridicoli vestiti da marinaretti e con dei pesantissimi cartelli bianchi, esposti alla buia intemperie di un cerchio vorticante. Castellucci li chiama i "Disoccupati", come quelli che hanno perso il proprio ruolo. Il proprio lavoro. In un'Industria che va avanti anche senza di loro.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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