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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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Attenzione ai corti circuiti |
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Polaroid #2. |
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Teatri stabili d'Innovazione: teoria e realtà.
di Adriano Gallina
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Questo intervento è apparso alll'interno del dossier Retroscena - Il sistema teatrale nell'era Berlusconi, sul numero corrente (anno XVII, n°1) della rivista Hystrio*.
"Teatri Stabili d'Innovazione" è la denominazione con cui il regolamento ministeriale 1999 definiva quelli che, fino ad allora, erano chiamati "Centri di ricerca e Centri di teatro per l'infanzia e la gioventù", riconosciuti un decennio prima nella circolare 1998/99.
Con questa variazione terminologica, i Centri venivano affiancati istituzionalmente agli altri due poli storici della stabilità nazionale - gli Stabili Pubblici e gli Stabili Privati - con quel quid aggettivante ("d'innovazione"), significativamente non riferito alla gestione o all'assetto giuridico ("pubblico" o "privato") e carico, invece, di notevoli e ambigue implicazioni - che vedremo - relative alla mission e alla natura, organizzativa ed artistica, dei nuovi soggetti. Veniva cioè individuata un'area - il teatro d'innovazione - quale parte costitutiva e strutturale del sistema delle stabilità, l'ipotetica "spina dorsale" del teatro italiano.
E questa - quantomeno coerentemente con la lettura certo ampiamente autoreferenziale dell'associazionismo AGIS-TEDARCO - veniva ad identificarsi con l'arcipelago del teatro di ricerca e del teatro ragazzi (sia sul fronte delle stabilità sia, per estensione, sul versante delle compagnie). Una novità che venne accolta con grande entusiasmo dai diretti interessati, ma parimenti con grande disappunto e sconcerto dai molti (vogliamo ricordare almeno Ivo Chiesa) che, forse giustamente, ritenevano che l'attribuzione di una patente "progressiva" ad un'area esclusiva del sistema teatrale italiano ne trasfigurasse ampiamente la realtà.
Ma se un cambiamento di denominazione non può essere inteso come atto neutrale o poco significativo, né sul piano strettamente amministrativo-legislativo né - soprattutto - dal punto di vista della visione di sistema (descrittiva e prospettica) che la nuova denominazione implica e sottende, allora vale forse la pena di analizzare sul piano teorico e fattuale i due poli della nuova categoria. Occorre precisare sin d'ora, d'altra parte, che quanto segue va riferito nelle sue linee sostanziali essenzialmente ai centri di ricerca: ben diversa, per molti riguardi, la situazione del Teatro Ragazzi, per ragioni legate alla sua storia, alla differente (e più garantita) natura e consistenza del mercato di riferimento, a pratiche più lineari (e forse più semplici) di relazione con l'ente pubblico. Un rilievo, peraltro, da assumere con buona dose di relativismo, soprattutto in considerazione delle notevoli sovrapposizioni tra le due aree della stabilità di innovazione (che fanno sì che qualsiasi considerazione, in misura variabile, si possa in realtà riferire ad entrambi).
Sul piano teorico, l'idea di "stabilità" riferita ai centri di ricerca e di teatro ragazzi pare sottendere un modello - artistico, organizzativo e geografico - che attribuisce a questi organismi una doppia funzione: per un verso, ovviamente, il compito di rappresentare uno snodo di eccellenza produttiva coerente con la propria vocazione, caratterizzato (è anche il dettato ministeriale) da un nucleo artistico appunto "stabile", in grado di operare ai massimi livelli della produzione d'arte di settore; dall'altro lato, una funzione essenziale di natura eminentemente organizzativa e strutturale: il centro deve costituire uno dei poli del sistema del teatro italiano anche come momento promozionale e distributivo sul proprio territorio, porsi come attore incisivo nel tessuto delle politiche culturali, polo di aggregazione e formazione di nuovi pubblici, luogo di irradiazione e diffusione della nuova scena. Una funzione la cui declinazione si dovrebbe tradurre anche sul versante politico, nella persistente pressione all'apertura di nuovi spazi ed ambiti di promozione di un teatro che - per sua natura - ha la necessità del sostegno pubblico, nella vertenza permanente per la riallocazione delle risorse, nel porre programmaticamente sul tavolo della riflessione il tema della ratio degli investimenti istituzionali.
Se "stabilità", in rapidissima sintesi, si può schematizzare in questi termini, l'idea di "innovazione", al contrario, rappresenta un tema sfuggente, di grande complessità, declinabile in forme estremamente differenziate che non è possibile sviscerare in questa sede. Qualunque cosa il termine significhi sul piano descrittivo o teorico, peraltro, non vi è alcun dubbio che l'idea di "innovazione" porti con sé quantomeno due rilevanti implicazioni di natura, al contrario, normativa, in senso non giuridico: da un lato il dato strettamente (e non necessariamente banalmente) anagrafico, in base al quale un teatro stabile d'innovazione si dovrebbe porre - coerentemente con l'autonomia e la parzialità della direzione artistica ma strutturalmente - in una predisposizione all'attenzione a quanto di "nuovo" si affaccia sulla scena e alla sua promozione, con una particolare attenzione al territorio di riferimento; dall'altro lato, ma ovviamente in stretta connessione logica, la considerazione che la funzione di uno stabile di innovazione è probabilmente e precisamente proprio quella di porsi come luogo di maturazione, circuitazione, crescita artistica (ma anche snodo economico) di un teatro costitutivamente a rischio culturale, a scarsa o difficoltosa circuitazione, strutturalmente di nicchia ma potenzialmente aperto anche al pubblico più vasto; in una visione evolutiva del sistema e del gusto che - in prospettiva storica - vede avvicendarsi innovazione e tradizione lungo un percorso nel quale la tradizione di oggi è l'eresia di ieri, le folle acclamanti di oggi erano i venti spettatori di cinque anni fa.
Ecco, è forse questo il senso più profondo che potrebbero avere gli stabili di innovazione: se la crescita e la sacrosanta affermazione di un artista o di un gruppo nell'universo sclerotizzato del teatro si configura come un "rito di passaggio", con una partenza ed un approdo, lo Stabile di Innovazione può forse rappresentare il "margine", il processo, il viaggio. Fino a lidi certo più attrezzati e confortevoli: ma a cui si arriva solo dopo. Gregory Bateson ci ricorda che occorre "pensare come pensa la natura": la natura evolve solo grazie alla dialettica che intercorre tra mutazione e ambiente naturale; la mutazione si genera, tenta di diffondersi, e l'ambiente la controlla e ne verifica la vitalità. Non è molto diverso in teatro: e se un ambiente radicalmente conservativo tende a prevenire e limitare il diffondersi della mutazione, il ruolo degli Stabili di Innovazione è invece generarne in continuazione, promuoverne la proliferazione.
Se questa è una possibile teoria degli Stabili di Innovazione, un'analisi descrittiva del quadro nazionale mostra al contrario - in realtà - un'immagine molto meno nitida e coerente. Una valutazione della prassi mediamente ormai quasi trentennale di questi organismi attraverso le loro varie fasi di transizione evidenzia in effetti come gran parte delle premesse e delle aspettative che ne avevano accompagnato la nascita e lo sviluppo siano state ampiamente disattese, sotto diversi punti di vista.
Se non è forse il caso di parlare del quadro produttivo che ne ha segnato la storia - contradditorio, raramente (tranne in alcuni casi) realmente significativo dal punto di vista dell'eccellenza artistica, quasi sempre senza una politica di reale stabilizzazione del nucleo artistico, volta per volta costituito intorno a progetti estemporanei di allestimento, produzioni di compagnie terze, agibilità accordate a gruppi totalmente autonomi sovente anche sul piano organizzativo - è interessante invece osservare come sia venuto meno, e in realtà non sia mai stato di fatto percorso e realizzato, lo stesso possibile senso organizzativo e di sistema implicito nelle prospettive di progetto degli stabili di innovazione.
In breve, oggi, la "dorsale" costituita da questi organismi si configura - certo con le dovute eccezioni - come una rete fondamentalmente priva di fisionomia, che pare condividere una koinè poco più che nominale, che non pare rappresentare neppure uno snodo interessante (non diciamo sostanziale) per la circuitazione dei gruppi che operano nell'area della ricerca. Come è indiscutibilmente accaduto in forma estremamente radicale nel settore del Teatro Ragazzi - nonostante la persistente e un po' corporativa persuasione contraria dei relativi stabili - anche nell'ambito della ricerca il sistema si sta sempre più strutturando lungo le direttrici di una stabilità diffusa, di aree, teatri e piccoli bacini di programmazione gestiti direttamente dalle compagnie, forme di residenzialità non-istituzionalizzata, rassegne tematiche spesso collegate ad una funzione complessivamente socio-culturale della connessione organica di un gruppo alla propria comunità. Una realtà diffusa che, altrettanto indiscutibilmente, è insieme causa ed effetto della crisi di fisionomia e di attività degli Stabili di Innovazione.
Spesso sospinti, sul piano produttivo e della programmazione, a percorsi di omologazione agli Stabili Privati - anche sulla base di pesanti spinte esogene, di natura politica ed economica - o alla pratica di un teatro senza contorni, tutto teso esclusivamente alla conquista di dati collaterali rispetto a quanto accade sul palco, in una declinazione del ruolo del teatro stesso in chiave più sociologica che artistica, più legata alla dimensione dell'intrattenimento e dell'organizzazione del tempo libero che all'evento scenico, gli Stabili di Innovazione hanno soprattutto mancato in questi anni il compito storico di "creare circuito", di divenire organismi promotori di innovazione diffusa. Anzi, da questo punto di vista, pare di assistere sempre più negli ultimi tempi ad una declinazione "estrema" dell'idea di stabilità, caratterizzata da cartelloni pressoché totalmente costruiti sulle produzioni del centro che gestisce la sala: una pratica del resto incentivata dalla spinta alle lunghe teniture presente nel più recente regolamento ministeriale.
Eppure il senso, e forse la necessità, di questi organismi può ancora essere rintracciata proprio nella capacità con cui riusciranno, soprattutto in prospettiva, a definire (o ri-definire) un proprio ruolo e una propria funzione pubblica in relazione al loro naturale referente, territoriale ed artistico: le giovani compagnie dell'area della ricerca, che tanto giustamente sollecitano da tempo un dialogo ed un confronto. Ricostruire cioè una relazione di effettiva reciprocità e collaborazione con i gruppi, in co-evoluzione, nella consapevolezza delle rispettive interdipendenze. Rappresentare e stimolare, nel contempo, un reale mercato sostenibile, sempre più necessario quanto più la prospettiva dell'intervento pubblico si va assottigliando, sviluppando in parallelo - per quanto possibile - una nuova fase di "creatività organizzativa", nuove dimensioni di decentramento, di contagio, di apertura di piazze e circuiti (un attivismo ed una tensione al decentramento, per contro, molto praticati e sviluppati dagli Stabili per l'infanzia e la gioventù).
Probabilmente solo con il recupero e il perseguimento coerente di queste linee programmatiche - marcando cioè, e rivendicando, le differenze con i fratelli maggiori Pubblici e Privati e non rincorrendone una somiglianza strutturale e quantitativa - la tanto rivendicata "pari dignità" sarà possibile e sensata. Certo questo, altrettanto probabilmente, comporta una drastica revisione di prassi consolidate, di tentazioni all'omologazione irrestistibili, di abitudini e modelli organizzativi cristallizzati: una sorta di piccola "rivoluzione culturale" di cui non è dato, ad oggi, vedere le reali prospettive e l'effettiva possibilità. Forse solo nella capacità di pressione dei nuovi gruppi e nella proliferazione delle realtà di stabilità diffusa può essere riposta, in prospettiva e al di là della buona volontà degli individui, la speranza di una ripresa di quelle istanze, non foss'altro che in chiave difensiva.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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