Dialogo settimanale su teatro e danza.

ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024
al 25/11/2024


Aggiornato il lunedì sera







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A seguito di Scemo di Guerra  
Riflessioni a partire dall’ultimo lavoro di Ascanio Celestini.      
Roma, Teatro Ambra Jovinelli. Fino al 30 gennaio.
di Gian Maria Tosatti
     

Perciò davanti a una folla di partenti
io provo sempre un brivido

S. Esenin

E’ stato scritto molto sul giovane poeta Ascanio Celestini. Sono state scritte parole definitive. Quelle che i giornalisti di teatro incidono sulle lapidi dei fenomeni che ciclicamente si inventano per un eccesso di zelo o di noia. Come se per fare i critici in Italia ci fosse bisogno di un teatro all’altezza.
Ma le parole definitive, le etichette, le analisi esegetiche appiccicate sulla giacchetta di un mingherlino appena trentenne, con la sua barbetta un po’ da satiro e un po’ da profeta, da un lato fanno sorridere, dall’altro fanno impressione. Un po’ come il vestito da morto “che i poveri si facevano cucire in gioventù, perché non si sa mai che quando capiti non si abbiano nemmeno i soldi per l’abito”. Così racconta proprio Ascanio Celestini, che il suo vestito da morto ce l’ha cucito e riposto nell’armadio… O forse addirittura lo indossa tutte le sere… ed è appunto quel suo solito completo nero. Proprio come uno dei personaggi del suo affabulare, il soldato che muore e si resuscita da solo, poi torna a casa e racconta.

Questo preambolo per dire che in effetti io non so dire niente di Ascanio Celestini, se non che il suo teatro passa proprio attraverso la morte. Non quella decretata dai capricciosi giudici terrestri cui gli attori devono render conto, ma quella vera. Mi pare che Ascanio Celestini si sieda lì, con la sua seggiola, al limite in cui comincia l’ombra. Con quella sua barbetta da portiere dell’aldilà cava i denti ai morti prima che attraversino la soglia. E i denti iniziano a parlare.
E così sta, in quest’ultimo spettacolo. Seduto, come un portinaio. Meno concitato, più pigro che in passato. Sta lì e tira il filo del racconto cui sta attaccato uno dei denti della sua scatoletta magica.

Io che sto seduto penso a mia nonna, che era della Garbatella e che andava a lavare i panni alla fontana di Piazza del Popolo e poi in pellegrinaggio al Divino Amore col “caretto”. Penso a tutto quello che è sepolto delle generazioni che ci hanno preceduto. Penso a qualcosa che non si sa nominare e che appunto per questo va sepolto.

Ascanio sembra quasi sonnecchiare. Sembra quasi stare a lungo in silenzio sulla sua sedia, anche se non sta zitto un attimo. Forse capisco che c’è un errore d’impostazione nel pensare Celestini come un narratore. Ascanio non racconta niente. Quello che fa è un lavoro che sta a metà tra il macabro e il miracoloso. E’ un po’ come quegli ebrei che frugavano nelle fodere delle giacche degli altri deportati dentro i lager. E’ un lavoro crudele. E tutto sta nel cercare tra le cuciture, nei doppi fondi. Dopo estrae una placchetta incisa, un anelletto. E quello parla da solo. Crea… l’incantamento.

Perché in fondo a me che siedo in una platea di teatro, che mi importa di un racconto di guerra? Che mi importa di un caso di sessant’anni fa? Di una storia di liberazione, o di un racconto di lavoro, di fabbrica o anche della grande storia delle fosse ardeatine, che l’ho sentita cento volte, raccontata bene o meno?
Ma del mistero di quel qualcosa, di quel braccialetto rotto col nome “mezzo scancellato” che Celestini strappa alla morte, alla sepoltura… Io ci resto un’ora e mezza a guardarmelo e al ritorno sto ancora lì con l’immaginazione.

Ecco. Penso a questo. Poi alle parole definitive. E mi pare tutto molto comico. Perché so che quest’arte non si improvvisa. So che il teatro è una bottega. In cui si cresce l’arte(fazione). E so che l’aspetto chagalliano di Celestini, il suo completo nero, la sua barbetta da ebreo, mi ingannano. So che la seggiola è al limitare di un’ombra finta, un’ombra creata ad arte appunto. So che se oggi, mentre vedo Scemo di guerra al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, sono preso da incantamento, è perché Celestini, è cresciuto nel suo artigianato di attore-autore, ha sintetizzato i tentativi passati, evitando le spigolature di Radio Clandestina, o i ridondanti panegirici di Fabbrica, integrando questa volta sì il racconto storico e quello mitopoietico in un organismo testuale complesso che volge le digressioni di una volta nei contrappunti di oggi. Ha costruito proprio un bell’artefatto, il migliore che si potrebbe pensare. Un esercizio di passione e di mestiere. E so che è per questo che il suo vestito da morto gli durerà ancora a lungo prima di servire allo scopo per cui i sarti del teatro lo hanno cucito con quella particolare voluttà che s’addice agli scialacquatori.

Tuttavia so anche che il teatro non è un’arte fine a sé stessa. E che assomiglia di più ad una pratica. Una pratica per lavorare dentro ad un’altra arte. Il teatro sviluppa gli strumenti e quello che ci si fa dipende solo da chi ne fa uso.
Ho visto persone farne strumenti mistici, altri strumenti di sostentamento. Celestini ne ha tratto gli strumenti per una pratica magica. Quella appunto che mi zittisce con un racconto che “misteriosamente” mi appartiene. E per cui appunto non saprei trovare parole definitive.

Per informazioni: www.ascaniocelestini.it

L’ultimo numero di LifeGate Teatro
Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione. Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -