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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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Il tempo al tempo |
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Nekrosius delude il pubblico col suo Cantico di Cantici. |
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di Gian Maria Tosatti
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“Però quello che mi interessava seriamente era trasporla in un linguaggio che fosse comprensibile a tutti gli esseri umani, convertirla in sentimenti che ognuno di noi ha provato qualche volta. Io non manipolo concetti astratti, utilizzo al loro posto ciò che è familiare a me e ai miei attori, quello che abbiamo provato qualche volta. Sentimenti ed emozioni sono sempre alla base del nostro lavoro. E anche la religione è sentimento".
Questa frase di Eimuntas Nekrosius, riferita al suo Cantico dei Cantici, basterebbe forse a spiegare cosa accade esattamente in questo ultimo lavoro del regista lituano. Ovviamente non in senso descrittivo, ma in relazione alle cause che stanno dietro ad un’analisi critica dello spettacolo e prima ancora della sua impostazione.
Il Cantico dei Cantici è, a onor del vero, uno dei più affascinanti libri che la storia della letteratura abbia conosciuto e conosca ancora oggi per la sua straordinaria modernità. Una modernità determinata dall’essenzialità con cui il suo autore (Re Salomone, per la tradizione) arriva a toccare le assi portanti del desiderio d’amore, e al contempo dalla complessità che tale approccio semplice nasconde.
Si sente l’impronta del Cantico dei Cantici in poeti contemporanei di ogni Paese, in Esenin, ad esempio, che Nekrosius conosce bene, come anche in certi passaggi del nostro Attilio Bertolucci. Il Cantico dei Cantici è la matrice. Il suo seme è alla base del dire, scrivere, raccontare, cantare l’amore attraverso le terre e i tempi.
La ricerca di Nekrosius negli ultimi anni può essere definita come un passaggio a ritroso, una regressione alle origini, all’originario. Un percorso iniziato alla fine del suo ciclo shakespeariano e che ha visto in Otello, appunto, il punto di svolta.
Ignorando gli “incidenti italiani” questo pellegrinaggio ha inizato a concretizzarsi con il progetto mai realizzato per il Faust di Goethe e ha visto il primo passo con Le stagioni di Donelaitis, trasudanti di quel sacrale paganesimo che lega la sensibilità dei popoli nordici così strettamente ai cicli naturali, proseguendo poi necessariamente in questo Cantico dei Cantici.
Con l’approdo biblico, tuttavia, tale percorso non sembra destinato ad esaurirsi, perché se la direzione filosofica è chiara al maestro, ben altro si può dire della via tecnica necessaria a che tali passi si compiano pienamente. Gli ultimi due lavori, infatti, sono da considerarsi opere non riuscite, senza polemica o volotà di accusa. Nekrosius ha impostato il lavoro e quel che ne è uscito è palesemente un fallimento dal punto di vista spettacolare. Ma prima di analizzare le modalità del naufragio occorre fare chiarezza sulla necessità dell’errore. Necessità che Nekrosius in questo spettacolo dimostra di conoscere assai bene. Nel Cantico egli sceglie di mettersi in gioco completamente. Nega a sé stesso soluzioni facili e torna ad osservare i reagenti. Il gioco è in mano ai suoi attori. E questo Cantico dei Cantici appare chiaramente, anche all’occhio meno esperto, come un risultato di laboratorio, fitto di imporvvisazioni strutturate, più o meno riuscite e montate al meglio di quel che si poteva. Perché Nekrosius questo spettacolo non lo sapeva fare e non si è preoccupato di nasconderlo. Per chi va a teatro una volta tanto sventolando i diritti del biglietto questo è a dir poco scandaloso. Per chi ha idea di cosa voglia dire “cercare” nei territori dell’arte il comportamento di Nekrosius è umano ed onesto.
Ciò detto, per chi chiederà ragione di questo lavoro, si dirà in breve che il grande talento dimostrato da Nekrosius negli anni della sua carriera è consistito nell’estrapolare i nuclei drammaturgici fondamentali dal corpo di grandi opere teatrali e intorno a tali nuclei costruire un intero apparato cellulare fatto di metafore e analogie, attraverso un linguaggio dall’estrema potenza visionaria. Su questo si basava l’organicità dei grandi capolavori shakespeariani, ad esempio.
Cosa ben diversa è lavorare su un testo come quello del Cantico dei Cantici, in cui un’ordinatura drammaturgica è pressoché impossibile e i nuclei che possono esserne estratti hanno un peso specifico tamente scarso da non contrastare in nessun modo le correnti creative del regista tenendole a terra. E le parole, dunque, volano via, soffiate lontano, senza lasciare un segno, una traccia significativa.
A dire il vero le avvisaglie del naufragio ci sono tutte, dalla persistenza della musica durante tutto lo spettacolo, segno evidente della mancata autosufficienza delle azioni attoriali nella cornice della visione, alla assoluta mancanza di attinenze fra l’azione e l’impianto scenografico. E in fine alla noia, assoluta e continua.
Ma se tanto male si è detto è pur giusto spezzare una lancia in favore di uno dei risultati raggiunti da questo spettacolo, e cioè il suo essere riuscito a rompere l’univocità della lettura erotico-idillica del Cantico volgendola in una controversa alternanza di uomini e donne che urlano quell’idillio amoroso con disperazione, uomini e donne che urlano il loro amore alle pietre.
Il Cantico allora trasuda di una sofferenza che demolisce qualsiasi velleità filologica o “rappresentativa”. Nekrosius lo fa passare attraverso di sé e i suoi attori, attraverso i corpo di uomini che hanno passato gli anni del socialismo e quelli dello svelamento del capitalismo in una Lituania che si è trovata al crollo del muro un po’ come i deportati di Auschwitz al momento della liberazione, nudi, a piedi, e con davanti chilometri di fredda e desertica pianura polacca.
Tornando all’assunto iniziale, quello con cui abbiamo aperto quest’articolo, tale risultato ci pare allora estremamente coerente con la volontà del regista di cominciare a capire come si possa teatralizzare il nostro rapporto con le “matrici” culturali che determinano la cognizione del sentimento. L’ostinato Nekrosius che torna e torna ancora sugli errori colleziona le prime tessere del suo mosaico tra la delusione e la noia. E chi conosce il valore di una ricerca vera, verso ciò che non si conosce, avrà pazienza di aspettare che essa si compia dando tempo al tempo.
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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