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Dialogo settimanale su teatro e danza.
ANNO 2025 NUMERO 12
Dal 18/11/2024 al 25/11/2024
Aggiornato il lunedì sera
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La critica alle Buone Pratiche |
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Che cos’è successo davvero all’incontro milanese sullo stato del Teatro. |
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di Gian Maria Tosatti
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Capitolo I: L’incontro di Milano
Il 6 novembre si è tenuto a Milano l’atteso inconto dedicato alle “Buone Pratiche” del Teatro Italiano. Un meeting arrivato in un momento difficile per la scena nazionale dopo la polemica innescata dai tagli ministeriali operati a danno di alcune compagnie del settore dell’Innovazione.
La scelta degli organizzatori è stata (saggiamente) quella di non occuparsi in quella sede di tale polemica se non per un breve spunto e di proseguire con il programma fissato e basato sulla presentazione di progetti.
Ma questa giornata, senza dubbio importante, ha dato dei segni non trascurabili anche e soprattutto rispetto ai temi non affrontati.
Alla volontà propositiva di Oliviero Ponte di Pino, Franco D’Ippolito e Mimma Gallina, curatori intelligenti e appassionati dell’incontro, ha fatto specchio tutto quel che s’è detto e raccontato di esperienze compiute o da compiersi. Ma altri segnali hanno alimentato uno stato di perplessità più che giustificato.
Si sono contate quattrocento persone, intervenute alla Scuola Civica Paolo Grassi e un numero impressionante di relatori a raccontare il proprio modo di migliorare lo stato dello spettacolo dal vivo in questo Paese. (Tra questi ci si mette anche chi scrive).
Il tavolo del dibattito è andato assumendo progressivamente l’immagine metaforica di un banchetto pantagruelico, pieno di portate succulente, di nuovi sistemi produttivi, di circuiti distributivi che rivitalizzano intere regioni e di teatri comunali che attivano progetti di residenza e sostegno alla produzione per giovani artisti.
Le sezioni su cui si è articolato il discorso sono state le seguenti:
1. Le buone pratiche della produzione.
2. Le buone pratiche della distribuzione, della gestione e della promozione.
3. Le buone pratiche dell’autofinanziamento.
4. Le buone pratiche delle reti e dei servizi comuni.
5. Le buone pratiche di nonsoloteatro
Capitolo II: I due ospiti.
Seduto a metà platea, capitato lì per caso, stava uno straniero non meglio identificato. Di età attorno ai trent’anni. Sempre più interessato al quadro che si andava disegnando. Un po’ capiva e un po’ chiedeva ai vicini nostri connazionali. Ma pareva chiaro che stesse sorgendo dal fondo della sua coscienza la tentazione di trasferirsi nel Bel Paese in ragione di una così organizzato sistema di iniziative eccellenti (Anche chi scrive, pur meditando da tempo l’emigrazione in Burkina Faso, ha avuto seri tentennamenti).
Durante la pausa pranzo, però, il suo buon umore andava scontrandosi contro i nervosismi, le parole lapidarie, il volto scuro di Catia Gatelli. Col passare del tempo l’esaltazione andava raffreddandosi e il protagonista di questo racconto, seduto su un sasso nel giardinetto della Paolo Grassi, guardando all’interno della scuola, verso il tavolo del catering fu attraversato dall’epifania. La mensa iper-affollata gli apparve come l’immagine metaforica di quest’incontro. Quattrocento persone accalcate per afferrare un tramezzino o un piatto di maccheroni. E nella sala del convegno ancora peggio. Quattrocento persone assembrate, e giunte dal Monte Bianco all’Etna, ognuno col suo sacchetto di celophan doppio uso: o si riempie con qualcosa o si mette attorno alla testa.
Gli tornano in mente allora, tra i vari interventi le frasi gravi dette fra le righe da compagnie come la Societas Raffaello Sanzio e Fanny & Alexander. Due compagnie che il nostro protagonista, seppur straniero conosce bene (forse meglio di noi). Parlano di come sia più conveniente lavorare su progetti speciali, e nella pausa mensa gli fanno eco altri artisti dello stesso peso. Dichiarano di aver rinunciato alla distribuzione e al mercato (ovviamente non per snobismo). E al nostro ipotetico straniero cominciano a venire i primi dubbi. Si chiede chi abbia possibilità di girare in Italia se gruppi osannati nella sua Bruxelles, Parigi, Berlino o chissà dove, registano in patria una, due o tre date annuali per spettacolo. Seduto sul sasso vicino al suo, un ospite italiano, riprendendo le osservazioni di alcuni “direttori” di circuiti, gli spiega che tali compagnie, seppur importanti, hanno la tara di pensare per i propri spettacoli impianti scenotecnici complessi, che necessitano una levitazione dell’ingaggio, mentre oggi la circuitazione in Italia è basata sul “peso leggero”, ovvero “gira chi costa talmente poco da poter mettere tutto lo spettacolo sul sedile di un treno (possibilmente interregionale)”.
Lo staniero obietta che in questo modo, se pur in maniera indiretta nel nostro Paese è attivo un filtro che impedisce o limita di fatto la creazione degli artisti, “perché già in fase di progettazione essi dovranno tener conto di non poter fare uso di scene costruite o di disegni luce complessi”. A questo punto anche nel sempliciotto interlocutore italiano gli orizzonti si rabbuiano: “Ma vuoi vedere che il teatro di narrazione in Italia non è un fenomeno determinato dal gusto…” .
Ognuno sul suo sasso il processo di consapevolezza si fa parallelo. Le domande reciproche dell’uno e dell’altro innescano altre riflessioni e affratellano i due teatranti al punto che anche il nostro connazionale venuto (ipoteticamente) da Canosa di Puglia comincia a sentirsi un po’ straniero. Non certo per ragioni di simpatia con l’altro, ma perché sempre di più matura nella sua sensibilità l’impressione che lo “scisma padano” sia una realtà di fatto a prescindere dalle rivendicazioni leghiste. Al ritorno dal break gli operatori venuti dal sud (non per nascita, ma per attuale residenza) contano all’attivo quatto interventi, contro le decine del nord e la proporzione è pressappoco quella che allo stadio c’è fra i tifosi di casa e quelli della squadra ospite.
I due si fanno tutt’orecchi e le parole più dure vengono proprio da Franco D’Ippolito, uno dei promotori della giornata, riprendendo proprio il tema dei “progetti speciali” che aveva aperto la spirale dei dubbi al nostro protagonista. “Se il lavoro di un’artista si limita alla fase di creazione senza riuscire ad incontrare un numero considerevole d’individui, pur garantendo la sopravvivenza alla compagnia, decreterà la morte del pubblico. E di conseguenza anno dopo anno la morte del teatro e anche dei progetti speciali”.
Sono le sei e mezzo del pomeriggio lo straniero fuga ogni tentazione di emigrare in Italia e l’Italiano suo vicino riprende a fare i conti sui vantaggi di un’emigrazione nello Zimbawe. Entrambi lasciano la sala. Ma si trattava di ospiti eccessivamente facili a cadere in depressione e non ci dispiace averli perduti.
Capitolo III: Causa ed effetti.
Ha preceduto di due giorni l’incontro di Milano un’altra riunione. Un meeting di emergenza convocato dalle compagnie il cui premio ministeriale si è visto ridurre di una percentuale considerevole (fino al 100%). Parto di quella riunione è stata una lettera (che pubblichiamo in questo numero) indirizzata al Direttore Generale per lo Spettacolo dal Vivo e la proposta di un’iniziativa giudiziaria. Le lettere al direttore Salvo Nastasi si sono poi moltiplicate, come anche gli incontri, piccoli e grandi, monotematici o dall’imponente ordine del giorno (come a Milano). Chi vi ha partecipato ha avuto sempre la stessa sensazione: che si sia per ore discusso degli effetti, senza mai toccare la causa del problema.
Così a Milano, dove ogni Buona Pratica veniva presentata come un “aggiustamento” per far fronte a qualcosa che non va. Al taglio costante e progressivo delle sovvenzioni anno dopo anno, alla difficoltà di stabilire un dialogo con le isituzioni territoriali, ecc.
Le Buone Pratiche sembrano allora la banca delle peripezie organizzative, dei salti mortali compiuti da atleti eccezionali, che riescono a tuffarsi da 100 metri di altezza dentro un bicchiere d’acqua.
Oggi il problema del teatro non è un problema organizzativo, ma politico. La vera tara di questa generazione di artisti è il non aver saputo garantirsi una adeguata rappresentanza politica. Per cui a discutere, ma soprattutto a decidere in materia di spettacolo sono stati, sia nei governi di centrosinistra che in quello attuale, politici privi della necessaria competenza, ma soprattutto del minimo interesse per le vicende legate alle vicissitudini del teatro.
Chi è tanto ingenuo da credere di poter ottenere la difesa dei propri interessi se al tavolo delle spartizioni non ha messo alcun rappresentante?
E’ solo in questa ottica che assume toni di realismo la richiesta della dottoressa Deganutto, che in rappresentanza del Prof. Timarchi, motiva la necessità di una legge sul teatro. Al momento attuale, infatti, essa appare come una inutile preghiera. Anzi, per certi versi è auspicabile che non venga esaudita, tenendo conto che se una legge sul teatro venisse scritta oggi avrebbe effetti simili a quelli delle decisioni della commissione prosa. Perché pare chiaro che a Palazzo, non si abbia la minima intenzione di nominare dei veri tecnici per studiare una proposta di legge adeguata a risolvere il problema “teatro” dalle cause, come nessun tecnico vero è stato nominato in commissione per gestirne gli effetti.
Epilogo: Una sberla al disincanto.
Arrivano i Nostri!
Ma siamo sicuri che siano proprio nostri nostri?
(Leonardo Capuano – Zero spaccato)
La vera nota positiva della giornata è stata l’intervento del neo-direttore generale dell’Ente Teatrale Italiano. Le parole di Marco Giorgetti (che abbiamo deciso di pubblicare in questo numero) sono suonate in primo luogo come una critica decisa verso l’ultima politica dell’Eti. Una critica che è parsa a tutti gli effetti una giusta condanna, cui sono seguite promesse per un immediato cambio di rotta al fine di impedire la deriva dell’Ente. Un intervento breve, ma basato su idee chiare e in continuità con i percorsi interrotti dopo l’era Marinelli-Tian. Noi che tanto abbiamo criticato l’Eti in questi mesi vogliamo questa volta guardare con ottimismo al lavoro di Giorgetti e gli auguriamo la miglior fortuna.
P.S.
L'altra vera nota positiva, che ci va di ribadire, è comunque lo sforzo degli organizzatori ad aver creato un incontro importantissimo per conoscere cosa sta accadendo oggi nel nostro teatro. |
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L’ultimo numero di LifeGate Teatro
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Pubblichiamo oggi, 30 marzo 2005 l’ultimo numero di LifeGate Teatro, settimanale di teatro e danza che per due anni e mezzo ha compiuto la sua attività editoriale all’interno del progetto LifeGate. Sono stati mesi importanti per noi. Abbiamo cercato di cambiare il modo di fare giornalismo teatrale. Di rifondare la critica italiana cercando di capire quale fosse il suo ruolo in questo presente storico. La nostra sfida non era riuscirci. Era provarci. E forse ci abbiamo provato piuttosto bene.
On-line rimarranno gli archivi di questi due anni. Il lettore “postumo” potrà trovarvi le tracce del nostro lavoro e certamente dei contributi utili alle sue ricerche sul teatro italiano contemporaneo.
Per il numero di chiusura avevamo chiesto ai nostri lettori di scrivere qualcosa su di noi. Alcuni lo hanno fatto. E pubblichiamo i loro piccoli, ma importanti, contributi nei due articoli intitolati Bon nuit. Altri, davvero molti, hanno preferito mandarci messaggi di carattere più strettamente personale, che scegliamo di non pubblicare. Ma li ringraziamo tutti. Quelli di cui riportiamo i commenti e quelli, troppi per poterli citare, di cui conserveremo gli appelli alla resistenza, che per noi sono stimolo di trasformazione.
Per chiudere ci sembrava infine giusto puntare ancora una volta l’obiettivo su un problema centrale, quello che ha dato vita due anni e mezzo fa a questa rivista, ovvero la necessità di esigere di più dalla critica italiana. E un dovere degli artisti e noi ad essi ci rivolgiamo.
- Redazione Teatro -
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