Sul grande schermo
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Paris Dabar    
Un film particolare. Sicuramente eccessivo, ma di quell’eccesso che non ti infastidisce, e piuttosto ti coinvolge, ti invita a porti delle domande...      
Regia di Paolo Angelini.
di Sergio Ragaini
     

L’ambientazione, innanzitutto: il Pratello, quartiere popolare quasi simbolo di Bologna. Luogo che incarna, almeno un po’, il mito bohemienne, trasgressivo, mito che ci rievoca persone dal tipo di vita fuori dagli schemi della convenzionalità, che vivevano in una dimensione quasi a sé stante, sospesa tra qui e qualsiasi luogo. Di certo dove gli estremi si possono toccare, dove tutto si fonde, sino a divenire qualcosa di completamente diverso da come è partito. Il titolo, poi, parafrasi quasi grottesca della famosa Parigi Dakar, ci richiama un viaggio estremo, un viaggio al limite delle possibilità umane. Ma allo stesso tempo ci richiama il luogo di incontro principe delle persone: il bar. Di certo tutti sapranno che, proprio nelle osterie, sono nati i principali movimenti culturali. Il caffè è spesso il simbolo di circolazione di idee, di cultura e di evoluzione culturale. Ma anche simbolo di confidenze, di luogo dove le circostanze, e magari un leggero (ma non troppo!) tasso alcolico permettono di arrivare a quell’apertura, a quel crollo di barriere, per mettere in risalto il vero sé più profondo. Per mettere in luce la persona per quello che, spesso, è. E l’alcool è di certo protagonista di questo film. Forse il protagonista principale di tutto il racconto, visto che si narra, appunto, di una gara di bevute. Una gara che porta le persone, in 4 ore, a bere il più possibile, facendo il giro di quattro bar coinvolti nella gara. Un viaggio, quindi, o meglio una sorta di pellegrinaggio alcolico, con personaggi che, sempre di più, sprofondano in uno stato di sospensione. Ho parlato di sospensione, e non di oblio, perché, man mano che il tasso alcolico sale, le persone mutano, si trasformano. E, trasformandosi, si allontanano di certo dalla Realtà, almeno come noi la conosciamo, ma lasciano emergere cose di loro stessi altrimenti impensabili. Lasciano cadere quelle corazze che le convenzioni sociali e culturali, di cui tutti siamo prigionieri, ci fanno indossare (spesso quasi a senza che ce ne rendiamo conto, in modo tale che le crediamo nostre), lasciandosi quindi spogli di sovrastrutture. Forse per l’emersione di quella che è una struttura vera, più interessante, più limpida. Il regista è molto bravo a mostrare il tutto dal punto di vista dei concorrenti a questa strana quanto suggestiva gara. L’immagine si sfuoca, diventa sempre più instabile; la camera, a tratti, compie quasi delle evoluzioni. Per fare emergere il contrasto tra offuscamento di percezioni e, come dicevo prima, limpidezza di un io che, man mano che le barriere cadono, viene alla superficie sempre più vero. Una zona di Bologna che di per sé vuole dire libertà, che quindi ci muove verso una libertà assoluta di espressione, senza inibizioni né difese, per percezioni che, se da una parte si attenuano, dall’altra si deformano, si dilatano, si moltiplicano, e tutto diviene un tessuto umano di grande interesse e profondità. Il contenitore di tutto il film è una radio di Bologna, radio K centrale, che organizza una diretta non stop per la gara. Una vera radio, non un nome inventato ad hoc per il film. Nessuna finzione. Una radio indipendente, non assoggettata a nulla se non alla voglia di comunicare, di farsi ascoltare, di esprimere idee diverse, spessissimo controcorrente. Anche il modo con cui Michele, lo speaker, racconta la competizione, è di certo alternativo, nel linguaggio così come nei contenuti. Ma lui stesso è molto bravo ad enfatizzare ogni momento della gara, dalla preparazione alla disputa, sino allo “spegnimento” metaforico dei riflettori e all’inizio di un successivo programma, nella notte che avanza su Bologna, e forse proiettandosi già verso un nuovo giorno che andrà ad iniziare, magari con qualche consapevolezza in più, forse (o certamente) almeno quella che cantare fuori dal coro può essere davvero coinvolgente e, verosimilmente, l’unico modo per “sentirsi” davvero. Un grande gioco, quindi, ma, come lo stesso Regista ha sottolineato, un film è comunque un gioco, in cui gli attori accettano un ruolo in esso. In tal caso, poi, gli attori erano sì quasi tutti professionisti, ma mai come ora si può dire che non recitassero, e piuttosto vivessero. Nulla di simulato, ma vera ubriachezza. Il regista, infatti ha fatto presente come sia davvero difficile simulare la parte di un ubriaco, e che, per avere quel realismo che si richiede, l’unica soluzione sia ubriacarsi davvero, vivendo quindi su di sé quest’esperienza e le relative percezioni. Tutto vero, quindi, compresi i nomi dei personaggi che recitavano nella parte di loro stessi. Infatti, il film, più che un raccontare, è stato un “raccontarsi”. Un aprirsi a sé stessi. Un dialogo con la macchina da presa, che è stato anche un andare a fondo di sé, per, come dicevo prima, compiere il viaggio più interessante e suggestivo che ci possa essere: quello alla scoperta di quell’Io profondo che probabilmente noi non conosciamo. Ma che, talvolta, è bello riscoprire, come auto-scoperta di noi stessi, senza paura di quello che si può trovare. Le persone sono le vere protagoniste del film. Persone talvolta isolate, altre volte in gruppo, altre volte ancora in assembramenti quasi fittizi, dovuti alle circostanze e all’alcol che rendeva il passo insicuro, in incontri, scontri, dialoghi appena accennati o più intensi, sempre per parlare di quello che si è davvero. Anche la Musica, inutile dirlo, è alternativa ed indipendente. Si tratta di gruppi, o più raramente di singoli cantanti, la cui maggioranza è proprio di Bologna. Anche la maggior parte dilla musica che ascoltiamo è di loro produzione. Musica che a tratti appare più soft, con qualche reminiscenza jazz e blues, mentre in altri momenti si scatena con ritmi underground, a sottolineare un’umanità al limite dell’incredibile, del suggestivo, un qualcosa che cattura, che coinvolge, che fa metaforicamente entrare nello schermo, per porci domande, o anche solo per sentirci vivi. La musica, comunque, appare anche dal vivo nel film. Musica a tratti quasi scomposta, in dissoluzione, ma sempre qualcosa che segna vita, vitalità, voglia di essere e di esprimersi davvero, e che a tratti diviene un tutt’uno con le immagini. Raccontarsi, rispecchiarsi in sé stessi, vivere, essere e non apparire, non avere paura dei giudizi, ma essere vero giudizio su noi stessi. In sintesi può forse, anche se con un po’ di azzardo e, di certo, con un’interpretazione decisamente personale (e può darsi non condivisibile!), essere questa una delle possibili chiavi di lettura del film. Raccontarsi quasi al di fuori dello spazio e del tempo: spazio e tempo, infatti, sono davvero relativi in questo lavoro, dove la scansione temporale non è sempre rispettata, e dove appare contare solo la persona, quasi collocata in una dimensione a sé, per essere e non per sembrare. Di certo, e su questo non ho davvero dubbi, un punto a favore del Cinema Indipendente, quell’”altro Cinema” che dimostra come la passione e la voglia di fare vada al di là di ogni circostanza e idea preconcetta. Complimenti, quindi, a Paolo Angelini, per averci saputo mostrare qualcosa di notevole, di interessante, di espressivo. Un qualcosa che mette quello che veramente siamo al centro di tutto. E, di certo, non è poco! Sergio Ragaini

Cinema "Oltre il Cinema" di scena nei comuni della provincia di Como
Una rassegna di Cinema per "Andare oltre". Per guardare anche alla Società, a quello che ci circonda, con occhio attento e critico. Questo lo scopo della rassegna "oltre lo sguardo". Dal 9 ottobre 2004 al 28 maggio 2005, in diversi comuni del comasco, saranno proiettati film di qualità, uniti ad interventi di rappresentanti del mondo del Sociale i quali, prendendo spunto dal film, tratteranno tematiche spesso ignorate, ma degne di essere conosciute e valorizzate. Tessera dalla cifra simbolica, che dà diritto a tutte le proiezioni. Info: Coordinamento Comasco per la pace - www.comopace.org ; [email protected] Oltre lo sguardo - www.ecoinformazioni.rcl.it ; [email protected]
Addio Janet Leigh
"Sì, dopo aver girato Psycho non fece mai più la doccia. No, l’acqua non era fredda, Hitchcock si premurò perché la doccia gettasse acqua calda per tutti i 7 giorni di riprese necessari per la scena... Sì, lei era nuda sotto la doccia, ma in nessuna inquadratura, per quanto brevissima, si vedono i capezzoli: problemi di censura, in quel lontano 1960. Bisogna partire da lì, da quella scena - una delle tre o quattro più famose della storia del cinema - per raccontare la vita di Janet Leigh, morta ieri all’età di 77 anni". È morta "serenamente, a casa sua" l'attrice americana Janet Leigh. La notizia è stata data dal portavoce della figlia: Jamie Lee Curtis è stata al capezzale della madre insieme all'altra figlia, Kekky, e a Robert Brandt, secondo marito di Janet Leigh. Dal 1951 al '62 l'attrice era stata moglie di Tony Curtis. Tra i molti film interpretati, 'Safari', 'L'infernale Quinlan'.